L’Umbria di Salvini

Ovvero, cronaca di una vittoria annunciata, molto più che prevedibile, praticamente scontata.
Quella certa incredulità che ancora persiste in queste ore, dipende esclusivamente da esigenze di clamore giornalistico oppure, in alternativa, da una preoccupante incapacità di leggere e comprendere la realtà più evidente delle cose.
È tuttavia pur vero che l’ovvietà del risultato non ne cancella né ne ridimensiona la portata, che resta tanto storica quanto gigantesca, e per la sua entità numerica (il distacco in punti percentuale fa pensare più a una valanga che a una vittoria) e per la valenza simbolica (la regione, con Toscana ed Emilia, “rossa” per eccellenza che per la prima volta nel dopoguerra passa alla destra).
Soprattutto, andando appena appena oltre la logica delle tifoserie cui basta esultare per il gol, e leggendo e analizzando veramente e nel dettaglio tali risultati, emerge una serie di dati tutt’altro che scontati su cui, forse, vale davvero la pena soffermarsi e riflettere.
Nell’ordine…
1.Le percentuali contano
Scrivevo qualche settimana fa: inutile chiedersi CHI vincerà, chiediamoci piuttosto QUANTO vincerà il centrodestra. Perché – e in politica capita spesso, si può anche vincere perdendo e, viceversa, perdere vincendo.
In altre parole, se il centrodestra – poniamo caso, dopo aver espugnato uno dopo l’altro tutti (o quasi) i comuni più importanti della regione, con la strada ulteriormente spianata dall’azione combinata dell’inarrestabile ascesa della Lega salviniana e dello scandalo sanitario che ha travolto e distrutto il PD umbro, avesse vinto al fotofinish, con appena 2-3 punti percentuali, o anche 5, l’impresa storica sarebbe certo rimasta intatta, ma il peso politico sarebbe stato molto più che ridimensionato. In un ipotetico simile scenario, addirittura PD e Cinquestelle avrebbero potuto sbandierare una clamorosa rimonta, segno dell’esperimento di alleanza perfettamente riuscito.
Solo che non solo non c’è stato alcun fotofinish, ma neppure la più lontana parvenza di contenimento o limitazione dei danni. Tradotto: per gli sconfitti la sconfitta va molto oltre la catastrofe e per i vincitori la vittoria è molto più di un trionfo.
La colazione a trazione leghista annienta gli avversari sfiorando il 60% dei consensi. Uno tsunami dal valore incalcolabile non per la portata storica e nemmeno per il distacco oceanico, ma perché arriva a ridosso dell’uscita della Lega dal governo. Ovvero, a ridosso di un’azione dal punto di vista politico oggettivamente assurda e per di più gestita nella più goffa delle maniere.
In altri tempi – forse in qualsiasi altro tempo a eccezione di questo – Salvini ne sarebbe uscito a pezzi, irrimediabilmente bruciato o quanto meno fortemente ridimensionato. Non adesso, visto che dopo qualche settimana di sbandamento, il segretario leghista pare addirittura rafforzato. Di sicuro, l’essersi sganciato da ogni responsabilità sulla finanziaria ha aiutato, e non poco. Ma soprattutto, questa ulteriore crescita della Lega avviene dopo quattordici mesi di governo in cui il partito di Salvini non ha fatto sostanzialmente niente, segno che il niente è la misura che paga maggiormente nella politica odierna.
2.Rapporti di forza
Ma al di là delle cause che le hanno generate, tali percentuali “a valanga” avranno effetti giganteschi sulla politica di domani.
A partire dagli equilibri interni alla coalizione vincitrice, dove lo strapotere leghista, a fronte di questi risultati, si consolida ulteriormente (e definitivamente).
In quel quasi 60%, la Lega da sola ha un peso pari al 37%, con il secondo partito, Fratelli d’Italia, che pure guadagna – e non poco – consensi, al 10%, una distanza a dir poco siderale.
E anche se per il partito della Meloni si tratta di un risultato clamoroso, un simile rapporto di forza non si era mai visto nell’epoca delle coalizioni, nemmeno quando, agli albori della Seconda Repubblica, Berlusconi regnava incontrastato sui suoi alleati di centrodestra.
Lo schema del centrodestra così come si va configurando, più che alle coalizioni della Seconda Repubblica, somiglia – per distribuzione numerica – alle compagini governative della Prima, con la DC unica grande potenza e gli alleati a farle da satellite.
Ma se Fratelli d’Italia, ottiene un risultato grandioso (ma per nulla casuale, visto che conferma la crescita costante e continua del partito su tutto il territorio nazionale), per Forza Italia il discorso è radicalmente diverso. Prima forza della coalizione fino a due anni fa, il misero 5,5% che raccoglie suona come un inesorabile preludio di sparizione.
Se infatti proviamo a tradurre i risultati umbri su scala nazionale e soprattutto in prospettiva, la conclusione più ovvia è che Forza Italia sia progressivamente condannata all’ininfluenza, sia in termini puramente numerici sia sul piano strettamente politico. Se infatti l’alleanza Lega – Fratelli d’Italia, al di là dei numeri, è oggettivamente granitica, basandosi su una visione di paese sostanzialmente identica e sovrapponibile, Forza Italia rappresenta una voce altra, addirittura antitetica in alcuni voci chiave: liberal-liberismo contro statalismo in campo economico, europeismo contro antieuropeismo…
Ma se, e sempre proiettando in prospettiva i dati di ieri, Salvini e Meloni sfiorano la possibilità di poter governare da soli, le istanze e l’identità di Forza Italia perdono qualsiasi peso specifico, andando il partito a rappresentare una mera “stampella” cui lasciare solo briciole insignificanti.
Percentuali e rapporti di forza che fanno perdere completamente di senso l’accusa, mossa al centrodestra, di essere coalizione raffazzonata, abitata da forze divergenti e inconciliabili. Perché se è pur vera la profonda diversità di Forza Italia, è anche e soprattutto vera l’impossibilità di incidere di quest’ultima.
3.Che ne sarà del governo giallorosso
Come sempre accade in questi casi, gli sconfitti cercano di contestualizzare il più possibile la tornata elettorale, ovvero di svincolarla da qualsiasi implicazione a livello nazionale. E da qualsiasi ripercussione sul governo.
Ma se la strategia ha una sua ragion d’essere, la pretesa, in tale contesto, oltre che insincera è assolutamente assurda. Nel senso che le ripercussioni sul governo ci saranno, eccome se ci saranno.
L’alleanza PD-Cinquestelle in Umbria è stata da subito presentata e sempre commentata, dagli stessi protagonisti, come un esperimento. Nessun esperimento in realtà, visto che l’unico vero esperimento per questa convergenza è lo stesso governo nazionale, di cui la coalizione umbra, nata non a caso l’indomani dell’insediamento dell’esecutivo, non è che lo specchio e la prosecuzione. Al punto da aver avuto l’esigenza di mandare in campo, gli ultimi giorni di campagna elettorale, tutti i big di ambedue i partiti, compreso, caso senza precedenti nella storia, il premier Conte, che della sintesi tra le due forze è la stessa incarnazione.
E, tornando alle percentuali, anche se non traducibili sul piano nazionale, resta il fatto che la somma dei due partiti con la maggioranza parlamentare, lamenta un ritardo di ben dieci punti rispetto alla Lega.
Impossibile quindi, stando così le cose, che la debacle umbra non abbia un’appendice governativa.
In quali e quanti termini è ancora presto per dirlo, ma di sicuro oggi il cosiddetto governo giallorosso, che pure non ha mai dato prova né di forza né di buona salute, si sveglia ancora più fragile e traballante, con correnti e fazioni interne di ambo le parti da sempre contrarie all’alleanza pronte ad affilare le armi e chiedere il conto.
E se difficile e remota appare comunque la possibilità di una crisi di governo immediata, o comunque prossima (le elezioni umbre hanno dato al centrodestra la dimostrazione di come paghi di più spingere gli avversari a una lenta agonia piuttosto che affondare subito il colpo), altrettanto arduo è scommettere su una durata a lungo termine dell’attuale esecutivo.
4.Schizofrenia a Cinquestelle
L’alleanza PD-Cinquestelle in Umbria è stato un azzardo con conseguenze palesemente e totalmente fallimentari.
Nata in fretta e furia, a freddo, senza una reale sintesi di programma tranne un fin troppo scoperto antisalvinismo (come se vent’anni di fallimentare antiberlusconismo non avessero insegnato che il compattarsi contro qualcuno porta inevitabilmente a rafforzarlo), si è gettata con foga suicida in una situazione praticamente impossibile (da un lato un PD umbro in macerie, dall’altro un Movimento tradizionalmente debolissimo nelle regioni, e sullo sfondo, ovviamente, una Lega inarrestabile), trascinando nella più ovvia delle Caporetto anche il governo.
Quanto, in percentuale, il tutto sia dipeso da incuria (che sicuramente c’è stata) o da una precisa volontà suicida (che altrettanto sicuramente c’è stata, viste le continue e nemmeno troppo sotterranee manovre delle fazioni e delle correnti di cui sopra), è difficile dirlo, forse impossibile. Ma di sicuro, anche se una parte delle due forze ha spinto verso questo naufragio, il risultato è devastante per entrambe, dentro o fuori l’alleanza, e rende il futuro ancora più incerto e nebuloso.
Di certo lo è per i Cinquestelle, per cui, pur se come si diceva abituati a veder scendere le proprie percentuali nelle tornate regionali, il 7% racimolato è un bottino decisamente inglorioso.
Ma soprattutto, il partito che doveva rivoluzionare la politica italiana, da ormai quasi due anni non fa altro che spostarsi da un’alleanza all’altra non sposandone alcuna e rinnegandole tutte. Quest’ultima, in Umbria, sconfessata addirittura ancor prima dei risultati definitivi, praticamente a spoglio ancora in corso e per bocca dello stesso Di Maio.
Una autentica schizofrenia che rivela soltanto la più totale e disarmante assenza di progetto e prospettiva.
5.I mille suicidi della sinistra
Ancora più folle, se possibile, il percorso del PD.
Da tempo alle prese con un’inarrestabile crisi di consensi, alla disperata ricerca di un’identità perduta, bastonato alle politiche e lacerato da scissioni e scandali (di cui quello della sanità umbra è stato il più clamoroso e importante), il PD, bisognoso come mai di rinascita e ripartenza, si è trovato costretto dentro un governo mal digerito e per nulla voluto proprio da quel nuovo stato maggiore (capitanato da Zingaretti) che doveva fargli ritrovare se stesso, tirarlo fuori dal baratro e condurlo a nuovo splendore.
Non pago, in Umbria, ovvero tra le macerie di uno scandalo senza precedenti che ha decapitato di netto l’intera leadership storica regionale, ovvero dove più che in ogni parte d’Italia aveva bisogno di ritrovare quella verginità e soprattutto quella identità perdute, non solo si è alleato con il partito che, più della Lega e di tutto il centrodestra, è stato il protagonista della decapitazione di cui sopra, ma soprattutto ha sostenuto la candidatura di un uomo che, per sua stessa ammissione, ha votato destra alle scorse elezioni.
Una trama a dir poco grottesca, una follia beckettiana che racconta l’agghiacciante nulla cosmico – politico, ideologico e progettuale – in cui annaspa senza scampo il partito. Con in più, se non proprio la certezza, quanto meno la forte probabilità che alle prossime elezioni, regionali o nazionali che siano, nulla sarà cambiato.
6.Chi ha vinto le elezioni?
Il prossimo governatore dell’Umbria sarà la leghista Donatella Tesei.
Ma le elezioni non le ha vinte lei, e nemmeno la Lega. Le ha vinte Salvini, e lui soltanto. È lui che gli umbri hanno votato, e se, ragionando per assurdo, Salvini si ritirasse di colpo dalla scena politica, quel 37% di ieri si trasformerebbe, Tesei o non Tesei, Lega o non Lega, in un 5% scarso.
Non si vota Lega, si vota Salvini (e non si vota Fratelli d’Italia ma si vota Meloni, e così via… ), ovvero il risultato ultimo, il compimento definitivo di quella politica “personalistica”, sensazionalistica e urlata, inaugurata da Berlusconi nel 1994, dove il partito non è l’insieme di valori e ideali ma è lo specchio del leader e non può prescindere da lui come senza di lui non può esistere, dove l’elettore non vota un progetto ma l’immagine di un singolo.
Una specie di cerchio che simbolicamente si chiude, se proprio Berlusconi, l’uomo che questa logica di esasperazione egotica, leaderistica e autoreferenziale l’ha creata e glorificata, mentre è costretto a farsi da parte e declinare per limiti anagrafici, mentre vede il suo partito impossibilitato a sopravvivergli, annegato nel nulla di una classe dirigente che, pur esistendo, non ha mai potuto dirigere nulla perché oscurata dal grande patriarca, cede suo malgrado il passo – e soprattutto lo scettro del centrodestra – a un nuovo leader che non ha creato un partito dal nulla, ma ne ha preso uno già esistente, lo ha annientato per rimodellarlo a sua immagine e somiglianza.
E il problema non è tanto – o almeno non solo – l’annullamento del partito nel singolo, quanto il fatto che votare la sua immagine non è mai scegliere il contenuto, ma l’apparenza.
In questo caso, la più vuota possibile.

 

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