Riepiloghiamo

Proviamo a rimettere in fila tutti i pezzi di questo papocchio – le (poche) certezze e le (molte) supposizioni – e proviamo a capire come sono andate le cose.

Dopo tanti scricchiolamenti, l’alleanza gialloverde comincia a implodere seriamente. Le divergenze si palesano, i battibecchi diventano scontri. Soprattutto, i risultati delle europee, che ribaltano letteralmente le percentuali dell’anno prima dei due alleati, mostrano che il proseguimento del matrimonio non conviene a nessuno. Non conviene certo ai Cinquestelle, che pagano l’eccesivo appiattimento su posizioni leghiste con il dimezzamento dei voti, e non conviene soprattutto alla Lega, che per capitalizzare un risultato storico (e difficilmente ripetibile a distanza di tempo) avrebbe tutto l’interesse ad andare alle urne il prima possibile.

Salvini fa due conti. Trova un’inaspettata sponda in casa PD, ovvero anche Zingaretti, per risolvere il problema di una truppa parlamentare quasi interamente renziana, avrebbe interesse ad andare al voto. Non sappiamo se Zingaretti e Salvini si siano parlati, se c’è stata una specie di accordo, se è stata solo una supposizione logica del leader leghista oppure (più probabile) una comunicazione sottotraccia.

Così Salvini forza la mano. Si appiglia alla mozione NO TAV dei Cinquestelle (fatta per pura prassi di conservazione della propria identità, non certo per innescare una battaglia), ergo si appiglia al nulla e innesca la crisi. Ma le cose non vanno per niente come sperava. La base, o quanto meno una consistente parte di essa, non capisce, alcuni big del partito non lo seguono, sono perplessi, e le perplessità sono così forti da trapelare all’esterno. Forse i sondaggi, quelli veri, quelli che non vedremo mai, non sono così plebiscitari. In buona sostanza, per la prima volta dopo cinque anni di strategia vincente, Salvini sbaglia totalmente una mossa. Allora tenta il dietro front, allestisce a mezze parole e allusioni un cauto ritorno sui suoi passi, si rende disponibile al taglio dei parlamentari, allude a un rimpasto che potrebbe salvare la baracca, lascia intendere che vuole proseguire la legislatura. Di Maio, nemmeno troppo sottotraccia, gli riapre subito la porta, ma Conte, in un sussulto di dignità (e di esasperazione) si mette fermamente di traverso facendo saltare ogni riappacificazione. Allora Salvini, all’angolo, agita lo spettro di un patto segreto PD Cinquestelle per farlo fuori. Un patto che non esiste, almeno in quel momento, ma ha gioco facile nel denunciarlo, visto che sarebbe l’unico sbocco parlamentare alla crisi. Lo spettro probabilmente lo agita un po’ troppo, perché nell’agitarlo, Salvini finisce per rimettere al centro della scena Renzi, che compie il numero a sorpresa: nonostante le botte e il sangue degli anni passati, si dice possibilista sull’ipotesi di un governo PD Cinquestelle. Mossa che impone a Zingaretti prima una riflessione, poi un cambio di strategia, e dalle chiusure di inizio mese si arriva alla disponibilità al dialogo.

Ma un dialogo vero non parte, se non a distanza. Anzi, di dialoghi veri non ne parte nemmeno mezzo, su nessuna sponda e su nessun versante. E si arriva alle consultazioni senza che nessuno abbia in mano non dico un accordo, ma un’idea precisa, un piano, una strategia a breve termine. E con tutti che dicono tutto e il contrario di tutto, prigionieri di correnti, veti incrociati e manifesta incompetenza.

Forza Italia richiama Salvini alla casa madre del centrodestra ma lui, Salvini, da quell’orecchio pare non sentirci e continua a chiamare Di Maio, il quale risponderebbe volentieri e con lui Di Battista, ma l’altra sponda Cinquestelle, con a capo il redivivo patriarca Grillo e Casaleggio Junior, spinge a tutta manetta in direzione PD che, da par suo, non si capisce se questo accordo lo vuole o no e chi lo vuole e chi no, e precauzionalmente tutti si guardano in cagnesco temendo un generale e indiscriminato pugnalamento alle spalle.

Finisce così che tutti, una volta da Mattarella, si esibiscano in una serie di ben poco memorabili supercazzole, ed è evidente da cosa dicono una volta usciti di lì.

Il Presidente Mattarella si contiene, ma è palese la sua irritazione. O meglio, la sua gigantesca incazzatura per l’ennesima prova di assoluta inconsistenza e di nulla totale dell’intera classe dirigente. A confronto della quale Mattarella (che pure ha una storia politica lontana anni luce dalle mie posizioni) appare come un gigante assoluto, costretto a gestire una banda di avventurieri grotteschi e sconsiderati, picareschi e abborracciati. E ai soliti commentatori della domenica che mi scriveranno “candidati tu allora”, rispondo che l’accusa all’intera classe dirigente è anche – e soprattutto – l’accusa alla generazione di cui fanno parte i principali leader del momento, che è la stessa mia generazione, il cui fallimento è anche fallimento del sottoscritto.

Mentre scrivo il balletto sfibrante del “è fatta… ma forse no”, continua. Perciò sì, si va verso l’esecutivo PD Cinquestelle ma potrebbe anche crollare tutto, da un momento all’altro, per qualsiasi motivo.

Un perenne “tutto è possibile” che nasconde esclusivamente l’incapacità e inettitudine.

Ma come si può pretendere un’idea chiara di paese e di futuro per chi non riesce ad averne una su come gestire una crisi di governo?

 

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