Il grande comunicatore

Leit motiv e tormentone degli ultimi mesi di cronache politiche è la celebrazione di Matteo Salvini – da parte anche, forse soprattutto, dei suoi detrattori – come “grande comunicatore”.
Senza dubbio il suo linguaggio è efficace e vincente (e su questo c’è davvero ben poco da questionare: sondaggi, numeri e indici di gradimento parlano da soli), ma da qui a definirlo “grande” o addirittura “geniale” ce ne corre. Anche perché tra funzionalità e genialità, e tra efficacia e grandezza, c’è molto più che un abisso, molto più che un oceano.
Salvini non è un grande comunicatore, è un comunicatore misero che nella sua stessa miseria trova la sua forza. L’esatto contrario di un capolavoro d’ingegno machiavellico, vale a dire che la sua è un’operazione trita, sfacciatamente elementare, tragicamente bassa. Quello che fa non è altro che dare il minor numero possibile di informazioni, produrre il minor sforzo possibile in chi ascolta, eliminare sfumature e contraddizioni, sfrondare subordinate a più non posso e applicare e replicare all’infinito la sintassi “a livello zero” di un tweet in ogni contesto, che sia un’intervista o un comizio o un intervento in parlamento. In definitiva, non dire niente e dirlo male. Altro che grande comunicatore.
Il suo linguaggio non è semplice, ma semplicistico. Non mostra né dimostra, ma insinua. Non risolve, ma aizza. Non rassicura, ma oscura.
Allora forse, più che domandarsi su quanto sia “geniale” questa strategia comunicativa, sarebbe il caso di iniziare a interrogarsi sul livello della società in cui viviamo. E sul perché una simile miseria risulti così vincente.

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