Il prossimo ministro dell’istruzione e il destino delle scuole professionali

In ore e giorni così frenetici, a un passo dalle elezioni, va da sé che domande e previsioni su chi comporrà – e soprattutto cosa farà – il prossimo governo siano all’ordine del giorno.
Tante, tantissime, le aspettative, le richieste e le priorità indicate dal mondo della scuola in una specie di “agenda ideale” del futuro ministro dell’istruzione. Dagli stipendi inadeguati al recupero della dignità professionale della figura dell’insegnante, da pessime riforme da stralciare a un precariato storico ancora vergognosamente da sanare, da investimenti concreti e necessari all’ammodernamento delle strutture.
Tutte giustissime e sacrosante.
Tuttavia accanto a loro, come assoluta priorità, inserirei la questione (molto grave e molto urgente) delle scuole professionali, di cui purtroppo non si parla (quasi) mai.

La scuola professionale avrebbe un ruolo molto importante all’interno del nostro sistema scolastico.
Senza tralasciare l’istruzione di base (anzi ritenendola fondamentale), dovrebbe fornire un percorso in collegamento diretto con il mondo del lavoro, fornendo competenze specifiche in determinati e specifici settori e formando quindi ragazzi già pronti alla professione al completamento degli studi.
Se sono costretto a usare il condizionale, se quanto appena scritto corrisponde poco (o per niente) alla realtà dei fatti, le colpe non vanno ricercate né in una presunta svogliatezza dei ragazzi né, tanto meno, in una altrettanto presunta inadeguatezza dei docenti delle materie professionalizzanti.
Le colpe sono a monte, ovvero in un sistema che, in maniera decisamente criminale, ha trasformato ciò che doveva essere eccellenza e fiore all’occhiello di un percorso combinato tra istruzione e lavoro, in ruota di scorta e ammortizzatore sociale dell’intero mondo della scuola.

Già segnati da tempo immemorabile, ingiustamente e con una logica decisamente discriminatoria (se non spudoratamente razzista e classista), come “scuole di serie b” e “ricoveri per nullafacenti” (come se abilità e competenze pratiche e laboratoriali non fossero importanti o come se escludessero la possibilità di accedere anche al sapere libresco), i professionali hanno subito un colpo di grazia decisivo e forse irreversibile dalla riforma Gelmini. Quella riforma cioè (entrata in vigore nell’anno scolastico 2011-2012) che, dietro la bella e rassicurante dicitura “riordino dei professionali”, nascondeva il taglio selvaggio, assurdo e sconsiderato, delle ore più preziose e importanti per quegli indirizzi, vale a dire quelle tecniche e di laboratorio.
Un taglio da macelleria sociale, quello della Gelmini, pari a otto miliardi, che di certo ha falciato l’intero mondo della scuola sotto ogni aspetto, ma che in particolare sulle scuole professionali, o almeno su ciò che avrebbero dovuto essere, ha messo la parola fine. Poi è arrivata la pessima Buona Scuola, una ennesima riforma completamente sbagliata che, tra le tante magagne, annovera anche quello di aver cancellato nella memoria dei più lo scempio che è stata la riforma Gelmini.

Tornando ai professionali, penosi, se non addirittura peggiorativi, i tentativi di salvare la faccia e mettere una pezza a questo disastro. Prima si è cercato di colmare le lacune con lo stratagemma delle ore in compresenza (come se condensare due insegnanti e due materie che, pur se affini sempre diverse restano, in un’ora, sia la stessa cosa e dia gli stessi strumenti che farle separatamente in due ore distinte), poi si è passati a “suggerire” alle scuole di rimodellare, in virtù dell’autonomia di ogni singolo istituto, i propri quadri orari. Tradotto: tagliare ore dell’insegnamento di base. Togliere un’ora di inglese, una di italiano, una di storia, eliminare l’insegnamento di diritto, fondere biologia e chimica in un’unica materia. Ovvero certificare e dichiarare apertamente e una volta per tutte che questi ragazzi, un’istruzione di base al pari di tutti gli altri, non è così importante che ce l’abbiano.
Che anzi probabilmente è meglio così, che probabilmente è proprio questo quello che si vuole.

Del resto la volontà ultima del “progetto” generale che sottende all’affossamento dei professionali pare essere proprio questa: creare una specie di riserva, un ghetto, una valvola di sfogo dove convogliare tutti i casi più difficili e problematici. Eliminare i problemi concentrandoli tutti insieme in calcolate, fatiscenti e decadenti “periferie dell’istruzione” a cui nessuno pensa e, se ci si pensa, lo si fa scuotendo la testa, con timore e rassegnazione.
Così, mentre ogni anno spuntano come funghi in settembre nuovi indirizzi liceali con classi dai numeri contenuti e sostenibili, i professionali traboccano di classi pollaio.
Il frutto più orrendo e malato di un orientamento vergognoso che, in barba alle competenze (parole di cui tutte le riforme o i progetti di didattica avveniristica amano riempirsi la bocca), non tiene minimamente conto delle abilità, delle inclinazioni e, soprattutto, dei reali interessi dei ragazzi, ma si limita a dirottare verso i professionali in maniera coatta ogni sorta di difficoltà, qualunque essa sia.

La conclusione è che non si va in un professionale.
Ci si finisce, come fosse una punizione.
Perché la famiglia è in difficoltà, perché il contesto sociale in cui si vive è compromesso o disastrato, perché si ha alle spalle una storia problematica, perché si ha una forma grave di dislessia o discalculia, perché si è caratteriali, perché si è non italofoni o di recente immigrazione.
Come se tutte queste problematiche comportassero, automaticamente, interesse e abilità nelle materie professionalizzanti e inabilità e disinteresse nello studio libresco.
Una parentesi strettamente personale. Una delle esperienze in assoluto più belle e intense della mia carriera (che è sicuramente breve e modesta, ma altrettanto sicuramente è appassionata e sincera) è stata proprio in un professionale “di frontiera”. Avevo, oltretutto come coordinatore, una classe creata di fatto “in vitro”: un concentrato micidiale di disagio e problematicità in una scuola già fortemente disagiata e problematica di per sé. Fu, nonostante premesse disarmanti, un’avventura splendida, a tratti esaltante.
Ma al di là delle considerazioni strettamente personali, ciò che più di ogni altra cosa colpiva di quella classe era che tutti i ragazzi, tranne forse un paio, non solo non riuscivano, ma erano completamente disinteressati e insofferenti nei confronti delle materie professionalizzanti. Ogni volta che manifestavano questa insofferenza (chiedendo continuamente più ore di italiano, più ore di inglese e meno di laboratorio), davanti alla domanda “ma allora che ci siete venuti a fare qui?”, la risposta era sempre “mi ci hanno mandato”. In particolare uno di quei ragazzi aveva un’indole spiccatamente letteraria, un senso profondo e innato per la poesia, una capacità e un senso critico per la letteratura davvero rarissimi per quell’età. E, soprattutto, aveva una scrittura ricchissima, profonda, sorprendente, come davvero pochissime volte mi è capitato di leggere. Aveva 10 con me, ma non un 10 “da professionale”, bensì un 10 che gli avrei dato anche nel più prestigioso liceo classico del centro.
In un mondo normale quel ragazzo sarebbe dovuto andare in una qualsiasi scuola a forte connotazione umanistica. Ma la scuola della Repubblica, quella che per principio costituzionale dovrebbe provvedere a rimuovere ogni ostacolo che si frappone alla realizzazione del talento e dell’inclinazione personali, se ne era fregata delle sue abilità e dei suoi interessi. Siccome era un ragazzo fortemente problematico, famiglia difficile, storia complicata e problemi personali d’ogni sorta, lo aveva spedito in un professionale a soffrire ogni giorno dentro laboratori verso cui non solo provava totale disinteresse, ma che lo umiliavano continuamente in quanto totalmente incapace in quell’ambito specifico.

E del resto, di cosa stupirsi?
Se il sistema dell’istruzione credesse veramente nelle competenze dei singoli, e nello specifico credesse veramente nei professionali e non li considerasse dei semplici raccoglitori di disagio, non lascerebbe i laboratori (che di quelle scuole sono il fulcro) in uno stato di totale abbandono, con macchine e strumenti vecchi di decenni, ma investirebbe soldi per il loro ammodernamento, per aggiornarsi al mercato del lavoro senza lavarsi la coscienza nella fallimentare “alternanza scuola/lavoro”, una serie di progetti poco utili e sempre più spesso nemmeno lontanamente in linea con gli specifici indirizzi di studio.

Forse i miei toni sono eccessivamente apocalittici. Ma al di là dell’enfasi personale, resta il fatto che il problema c’è, esiste ed è urgente risolverlo. Talmente urgente che un ministro dell’istruzione degno di questo nome, chiunque esso sia dal 5 marzo in poi, non può permettersi di voltare la testa e fare ancora finta di niente davanti a questo scempio.

#resistenzeRiccardoLestini

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