Le parole che non ti ho detto/ G come… (prima parte)

LE PAROLE CHE NON TI HO DETTO

G come…

GAGLIOFFO, che forse nasce dal matrimonio improbabile tra goffo e gagliardo, forse è la deformazione grottesca di califfo quando califfo era sinonimo di uomo violento, forse arriva dal latino galli offa, cioè il boccone del gallo, ovvero l’elemosina data ai pellegrini in viaggio verso Santiago. Nell’uno, nell’altro o nell’altro caso ancora, è parola che nel suo percorso che la porta fino a noi si è degenerata fino a farsi ridicola e ridicolizzante piuttosto e anzicheno, che esattamente e nello specifico indica il balordo, il poco di buono. Ma non il tipaccio terrorizzante e pericoloso che mai vorresti incontrare sulla tua strada, piuttosto il presunto tipaccio, quello che a tipaccio ci si atteggia soltanto e che tutto ha tranne quella dignità e quel fascino maligno di quei cattivi che tanta letteratura hanno ispirato.

Il grande Machiavelli, devastato dall’esilio, scriveva al Vettori come trascorresse le sue lunghe e vuote giornate assieme a due bifolchi: “con essi m’ingaglioffo tutto il dì giuocando a cricca e a trich-trach”.

In un mondo pieno di gaglioffi fino a scoppiare, un mistero il fatto che non la si utilizzi più.

Così come è un mistero che razza di giochi siano la cricca e il trich-trach.

GARRULO, dal verbo onomatopeico garrire che indica genericamente il verso all’unisono di stormi di uccelli, è parola onomatopeica a sua volta, traslata e piroettata dal mondo dei volatili a quello degli esseri umani. Garrulo, ovvero ciarliero, pettegolo, che parla insieme agli altri in un concerto festoso, gioioso, stupendamente superficiale. È garrula la confusione all’ingresso delle scuole, garrula l’aria satura nel negozio della parrucchiera il sabato pomeriggio, garrulo chi si civetta e si bea parlando festosamente di sé in pubblico a platee più o meno assenti.

Era parola degli uccelli ed è diventata degli umani. Che però hanno rinunciato a volare e allora non la usano più.

GAZZARRA, direttamente dall’arabo, ma non dal grido di battaglia saraceno “algazara” come a lungo si è pensato, perché gazzarra non indica alcuna guerra, alcuna violenza, piuttosto sta a significare, esattamente, la confusione dolce, musicale, il sovrapporsi armonico di voci, suoni, colori, sensazioni diversissimi tra di loro. È gazzarra il mercato del porto, il fondersi e il confondersi delle mille voci mediterranee in un’unica e sola festa di idiomi, è la fiera del paese dove urla e sussurri si inseguono e si prendono, è il gioco festoso dei cani in giardino, è la commovente indisciplina degli adolescenti che ricordano al mondo quanto sia bello essere giovani.

Termine che ricorda quanto sia bello l’incontro e la fusione. Quasi ovvio che un mondo, come il nostro, che vuole solo separare e dividere, abbia deciso di metterla in soffitta.

GIBIGIANA, ovvero, esattamente, lo stupendo e stupefacente bagliore di luce riflessa, come da specchio d’acqua, che folgora e investe il nostro sguardo rendendoci ciechi e felici. Parola un tempo lombarda e poi resa nazionale dal Manzoni. Il lampadario che, colpito da un raggio di sole implacabile, riflette una gibigiana per tutta la stanza, è gibigiana il riflesso del sole sui vecchi muri nei silenti pomeriggi d’estate che incanta e stordisce.

Gibigiana è sogno rarefatto, stupore, bellezza.

Usarla, ogni tanto, ci farebbe ricordare la grandezza della vita.

(continua… )

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#resistenzeRiccardoLestini

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