“C’era una volta una bambina di nome Laura che aveva paura del buio… “

“C’era una volta una bambina di nome Laura che aveva paura del buio, perché era sempre al buio che i mostri andavano a trovarla…”

Storie di belle ragazze – “Laura”

Il nostro viaggio settimanale nell’universo femminile oggi tocca di certo la sua tappa più complicata.
Questa intervista (che arriva di sabato anziché di giovedì, con due giorni di ritardo che hanno ben più di una motivazione) non è un’intervista, e Laura, la bella, bellissima, splendida ragazza che oggi andiamo a conoscere, non si chiama Laura.

Ma andiamo con ordine.

Ho conosciuto “Laura” qualche tempo fa, a margine di un’iniziativa in cui un’attrice lesse un paio di miei scritti su femminicidio e violenza. Un dialogo breve, cordiale e tranquillo. Il più normale e ovvio dei dialoghi post iniziativa, in cui qualcuno del pubblico viene a stringerti la mano e a farti un paio di domande su quello che ha appena sentito.
Poi “Laura” ha iniziato a seguire il mio blog e, dopo qualche settimana, mi ha scritto una lunga mail. Che cominciava così: “Non so perché ho deciso di raccontarti tutto questo…”.
“Tutto questo” era una storia atroce e terrificante. Una storia di violenze e bestialità durate anni. Una storia di mostri e orchi. Una storia di silenzi e vergogne. Un inferno senza troppo da aggiungere.
Le chiesi perché proprio io. “Perché nessuno mi ha mai creduto”, mi rispose “Laura”, “e forse tu hai le parole giuste per raccontare questa storia”.
Decidemmo insieme di raccontarla qui, sul blog, all’interno di quelle “Storie di belle ragazze” che mesi fa avevo deciso di pubblicare ogni giovedì sotto forma di intervista.
L’intervista a “Laura” durò due lunghissimi pomeriggi in cui c’incontrammo in un luogo isolato e tranquillo. Lontano da tutti. Non fu per niente facile. Per lei ovviamente, ma nemmeno per me.
Alla fine comunque il pezzo era pronto e sempre insieme decidemmo quando pubblicarlo, ovvero il 23 novembre, due giorni fa.
Poi “Laura” ha cambiato idea. In quella lunga e dolorosa intervista dove aveva vomitato ogni cosa c’erano nomi e cognomi, date, luoghi, coordinate. Assalita da mille dubbi e soprattutto dalla paura di rivivere l’incubo del non essere creduta, dell’essere additata e insultata, il giorno prima della pubblicazione mi ha chiesto di cancellare ogni cosa. Intercalando un “per favore” denso di angoscia a ogni frase.
Le dissi che non c’era bisogno di chiederlo per favore. Che ovviamente capivo. E che ancora più ovviamente avrei rispettato la sua volontà.
Stavo per pubblicare un’altra storia due giorni fa quando “Laura” è nuovamente tornata sui suoi passi. “Forse un giorno sarò pronta a mostrarmi col mio vero nome, forse un giorno i miei figli saranno abbastanza grandi da capire”, mi ha detto, “però nel frattempo potresti raccontarla in anonimo”.
Niente nomi, niente date, niente coordinate.
Ho accettato, lavorando a questa nuova versione della storia per due giorni e informandola su ogni passaggio. Le dico di scegliersi un nome di fantasia e lei sceglie Laura.
“Perché proprio Laura?”, le chiedo. Mi risponde che mentre ci pensava le è venuta in mente quella canzone di Vasco Rossi che dice “E Laura aspetta un figlio per Natale…”.
“Ti piace Vasco?”, chiedo. “No”, risponde, “ma mi è venuta in mente lo stesso questa canzone”.

“Laura” è stata violentata e seviziata da quando aveva più o meno dieci anni.
Forse anche da prima, ma “Laura” non ricorda: “La mia infanzia è un buco nero”, dice, “una pagina bianca che sto cercando dolorosamente di ricostruire, ma non mi torna in mente niente, un’immagine, un colore, un odore, una sensazione…”.
I mostri, gli orchi che quotidianamente la costringevano a subire violenze, erano suo padre e suo zio.
“Mi lasciavano videocassette da vedere. E poi, la sera, dovevo rifare le stesse cose che facevano nel film”.
Tutto questo va avanti fino a quando “Laura” ha diciott’anni. In mezzo, in questi otto anni di inferno, anche un aborto. “Fu mio zio, inventando una storia assurda, ad accompagnarmi ad abortire. Di chi fosse il figlio, se suo o di mio padre, non lo so. Di quel giorno ricordo solo il silenzio”.
Diventata maggiorenne, decide di dire basta. Trova il coraggio di parlare, ma non le crede nessuno. La madre, i fratelli, la zia, le cugine, la compagna di banco e migliore amica: per tutti loro, “Laura” è una bugiarda, una sconsiderata e irresponsabile che vuole rovinare la sua famiglia.
“Lo so che sembra assurdo, ma il non essere creduta, a ripensarci, è anche più doloroso delle violenze subite”, dice.
“Tu mi credi?”, mi chiede di continuo.
“Sì, ti credo”, le rispondo sempre.
“Ma non ho prove”.
“Non importa, non servono. Almeno non qui”.

Davanti a quel muro, “Laura” se ne va, scappa di casa. Seguono anni altrettanto terribili, altrettanto disperati. Prima la droga, l’eroina, poi la prostituzione.
Racconta: “Prostituirmi non era una necessità, non lo facevo per soldi. Spacciavo, e dallo spaccio avevo più o meno tutto quello che mi serviva. E nemmeno ho incontrato qualcuno che mi ha costretto a farlo. È stata una mia scelta, volevo prostituirmi. Era una specie di vendetta, contro chi non lo so, ma pensavo fosse l’unica cosa che potessi fare”.
A intercettarla e a tirarla fuori dalla strada è un’associazione di volontari.
Ma non è quell’incontro a convincerla a provare a rifarsi una vita.
Racconta: “Decisi di provarci quando feci il test HIV e l’esito fu negativo. Tanti “compagni” di buchi si erano ammalati di AIDS, io no. Era la prima cosa fortunata che mi capitava nella vita. Pensai che se ne era accaduta una ne potevano accadere altre”.

Non fu per niente facile.
“La questione non è riuscire a ricominciare o no”, dice, “ma accettare o non accettare di vivere e sopravvivere. Io l’ho accettata, la vita, e per accettarla ho dovuto separare la me stessa di prima e la me stessa di dopo. La me stessa di prima ha vissuto all’inferno. E l’inferno non l’ha saputo risolvere, ma è riuscita a oltrepassarlo”.
Così prima è venuto il lavoro, poi l’amore e, infine, i figli. “Incredibile eh?”, si chiede, “ma esiste qualcuno che ha avuto anche il coraggio di amarmi”.
Il tutto a centinaia di chilometri da dove è nata e cresciuta. A centinaia di chilometri dalla sua famiglia, con cui non ha avuto più alcun contatto. Ma la notizia della morte, sia di suo padre sia di suo zio, le è arrivata lo stesso. “Non lo so cos’ho provato e no, non ho pianto. Ma quello è un altro discorso: io non piango mai, non piango più”.

Le chiedo se oggi sia felice. Laura risponde: “La felicità è una cosa che non può riguardarmi. Però sono viva e, per la storia che ho avuto, credo sia già abbastanza”.
Una storia vertiginosa e allucinante. Ma anche, soprattutto mi viene da dire, di riscatto. Soprattutto la storia di un coraggio e di una forza incredibili e straordinari. Un coraggio e una forza che scuotono e fanno tremare.
Nell’intervista originaria, molto più lunga di questo articolo, come già detto, c’era tanto, tantissimo di più. Soprattutto c’erano molte più parole di “Laura” e molte meno parole mie.
La lascio lì, quella storia piena di nomi e dettagli, di incubi e resurrezioni, nelle sue mani.
E forse un giorno verrà alla luce.
Le avevo chiesto, come a tutte le ragazze intervistate, di continuare l’incipit “C’era una volta una bambina di nome Laura che…”.
E lei aveva risposto “…che aveva paura del buio, perché era sempre al buio che i mostri andavano a trovarla”.
Poi, sempre come in tutte le altre interviste, avevo concluso: “e se oggi quella bambina ti incontrasse, cosa ti direbbe?”.
“Non lo so cosa mi direbbe. Come ti dicevo di quella bambina che ero prima dei dieci anni non c’è più traccia nella mia memoria. Sto provando a ritrovarla, ma non so se sia un bene o no. Soprattutto non so se lei si voglia far trovare… magari, se mi incontrasse, forse mi direbbe grazie per averla dimenticata”.

A tutte voi, che avete il coraggio di rialzarvi.

A giovedì prossimo,
RL

#StorieDiBelleRagazze
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