Gli ultimi giorni di Buster Keaton

Oggi, si ragiona dell’ultima parte della carriera d’un attore/clown/mimo/ballerino/autore/regista che, a nostro modesto e sindacabilissimo parere, è stato uno dei più grandi geni che la storia, non solo quella cinematografara, abbia mai avuto il piacere d’incontrare.
In sostanza si vorrebbe parlare dell’americano John Frank Keaton, da tutti conosciuto come “Buster”. Sì, proprio lui aficionados, il grande unico immenso e supremo Buster Keaton.
Ma chi era questo ragazzo di provincia nato nel 1895 ed entrato trionfalmente a soli ventun anni nella neonata industria del cinema comico dei gag e delle slapsticks dopo una breve e travolgente gavetta nel vaudeville?
Era un genio, come s’è già detto, un genio senza troppo altro da aggiungere. Assieme a Chaplin, la più grande maschera comica (e quindi tragica) della storia. Sempre con Chaplin, l’inventore stesso della grammatica comica sul grande schermo.
Ora, visto che abbiamo tirato in ballo Chaplin, precisiamo una cosa: Chaplin e Keaton sono sempre tirati in ballo in coppia in quei giochini tanto cari su chi dei due fosse il migliore, su chi dei due straordinari mimi comici fosse il più grande, proprio come si fa con i Beatles e i Rolling Stones e con Bartali e Coppi.
Noi, aficionados, a sto giochino qua non cediamo nemmeno sotto tortura. Per noi Chaplin e Keaton sono due geni assoluti, punto e basta. Talmente immensi che si commetterebbe un delitto a metterli in posizione concorrenziale, a considerarli numerini da hit parade.
Due geni per di più con un linguaggio mimico e poetico radicalmente diverso, al punto che metterli in paragone è pressoché impossibile. Lunare, se non addirittura stralunato, etereo e straniato Keaton, terrigno, romantico e fisico Chaplin. Surreale il primo, realistico il secondo. Beckettiano Keaton, brechtiano Chaplin. Dionisiaco l’uno, apollineo l’altro, due facce complementari che sommate riescono a coprire l’intera gamma della tragicità comica che ancora oggi, decenni e decenni dopo, chiunque tenta invano di imitare.
Star planetarie del cinema muto, l’avvento del sonoro sul finire degli anni venti mise in crisi entrambi. Keaton come Chaplin.
Entrambe queste straordinarie maschere traevano la stessa linfa vitale della loro gigantesca potenza espressiva dall’assenza di parole, dal puro linguaggio mimico e gestuale del corpo. Il sonoro imponeva loro un generale ripensamento del loro codice artistico più peculiare.
Chaplin, senz’altro più forte (laddove per forte intendiamo proprio dal punto di vista caratteriale), seppe resistere per diversi anni (capolavori immensi come Luci della città e Tempi moderni furono girati in piena epoca del sonoro), per poi tracciare un percorso coerente e graduale di uccisione del mutismo di Charlot e di ingresso nel mondo delle parole.
Per Keaton invece, le cose andarono diversamente. Non avendo la forza caratteriale di Chaplin né, forse soprattutto, l’indipendenza artistica (Chaplin sin dagli anni venti era riuscito a ottenere un controllo assoluto sui propri film), il vecchio Buster cadde vittima dei produttori, in particolare della gigantesca Metro-Goldwyn-Mayer, che ritenendolo completamente inadatto alla nuova dimensione del sonoro, nel 1932 lo licenziò senza troppi complimenti.
Per Keaton fu l’inizio del calvario. Artistico certo, ma soprattutto esistenziale. Il repentino dimenticatoio dove era precipitato di colpo, l’improvvisa difficoltà economico, e per di più il divorzio dalla storica compagna Natalie Talmadge, lo trascinarono verso un disperato e irreversibile alcolismo che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni.
Il trentennio che separa l’avvento del sonoro dalla sua morte è così segnato da un oblio e un’indifferenza assoluta, piccoli cammeo ritagliati su misura, film scadenti e dozzinali accettati per sopravvivere, umilianti tournées con il circo Medrano dove veniva brutalmente esibito come un pezzo da museo.
Questo nonostante in qualunque film, dalle commediole abborracciate alle piccole parti in grandi film, Buster Keaton, seppur minato da gravissimi problemi personali, non sia mai venuto meno alla propria professionalità, al rispetto sacro del proprio mestiere e, soprattutto, abbia sempre sfoderato prove a dir poco sublimi.
Prendiamo i cammeo nei grandi film, ad esempio. Come dimenticare l’interpretazione nel ruolo del vecchio pianista nell’ultimo capolavoro di Chaplin (sì, proprio lui) Luci della ribalta? O il giocatore di bridge ne Il viale del tramonto di Wylder?
E, soprattutto, come dimenticare l’interpretazione (a nostro avviso una delle più grandi performance recitative dell’intera storia del cinema) dell’attore che cancella se stesso nell’unico lungometraggio scritto e diretto da Samuel Beckett, Film?
Eppure nulla bastò a salvarlo dall’oblio, dalla miseria, da un’indifferenza che un artista di tale portata di certo non meritava.
Pochi lo sanno, quasi nessuno lo ricorda, ma l’ultimo film della sua vita (1965), Keaton lo girò a fianco di altre due meravigliose maschere del cinema italiano, troppo spesso sottovalutate: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Si tratta di Due marines e un generale, dove il vecchio Buster recita muto per l’intero film, concedendosi una sola, unica, battuta nel finale. Un emblematico “grazie” che stringe il cuore per quanto è simbolico.
Ricordava Franco Franchi: “Povero Keaton, tu lo sai che quando lo abbiamo conosciuto noi, per tirare avanti decorava dei piatti per dei ristoranti, tipo i nostri piatti del buon ricordo… Non è giusto che un signore anziano venga trattato così”.
No, non è giusto.
Non è giusto che un colosso come Keaton sia morto dimenticato da tutti, nel 1966, per un male incurabile tenutogli pietosamente nascosto dalla seconda moglie.
Postumi, troppo postumi, i veri riconoscimenti alla sua genialità.
Dove resta, Keaton? Nei versi delicatamente meravigliosi scritti da Claudio Lolli e Francesco Guccini nella canzone Keaton, nell’altra canzone di Lolli La fine del cinema muto.
Ascoltatele entrambe, e ci troverete tutta la malinconia dell’ingiusta vita di un genio dimenticato e messo da parte come una scarpa vecchia.
Ma, soprattutto, riguardate i suoi film. Tanto quelli muti del periodo d’oro quanto quelli sonori del declino.
Troverete la risposta alla domanda eterna “cosa vuol dire essere un grande attore?”.

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