“C’era una volta una bambina di nome Anita che aveva fame di vita. E per questo decise di nascere sotto un metro di neve, a marzo, con un mese di anticipo”

“C’era una volta…
… una bambina di nome Anita che aveva fame di vita. E per questo decise di nascere sotto un metro di neve, a marzo, con un mese di anticipo…”

(Storie di belle ragazze – Donisi Anita)

La bella ragazza che oggi abbiamo il privilegio di conoscere si chiama Anita Donisi.
Sicuramente da qualche parte esiste un modo, efficace e sintetico, potente e incisivo, per presentarvi Anita al meglio e come si deve. Io però, purtroppo, non l’ho trovato.
Avrei potuto dirvi che è una speker radiofonica, spararvi il nome della sua emittente, Radio CL1, oppure tracciare in una manciata di parole il percorso che dal palcoscenico di un teatro l’ha portata a infilarsi le cuffie e sedersi davanti a un microfono.
Ma qualunque possibile presentazione mi si è arrotolata su sé stessa, inciampando e spegnendosi dopo tre o quattro parole. Ma proprio la sconfitta giornalistica si è rivelata la più grande illuminazione, vale a dire che proprio questa impossibilità di presentare e costringere Anita in poche parole e un paio di frasi, mi ha dato la misura del perché io abbia voluto così tanto intervistarla.
Perché Anita è una di quelle persone, rare e piene di luce, capaci di annullare i confini tra le cose, le persone e le esperienze, di distruggere quei compartimenti stagno in cui cerchiamo di racchiudere le esperienze della nostra vita. E, di conseguenza, di rendere inutili definizioni ed etichette.
Anita non è quello che sta facendo, quello che ha fatto o quello che farà. Anita è l’impasto armonioso di passato, presente e futuro fusi e confusi insieme.
Ogni parola che pronuncia al tempo stesso racconta la sua storia, illumina il suo presente e spalanca finestre sul suo futuro. Anita non è giallo e non è blu. È verde.
Come quelle strade irlandesi che costeggiano l’oceano, nascondendotelo dietro le massicciate e facendotelo riapparire di colpo davanti agli occhi in spiazzi improvvisi e giganteschi, Anita è un’avventura continua di emozioni e batticuori che sa farti esplodere dentro anche quando le oscura e le occulta.
È il miracolo che riesce alle persone che sanno dare e amano farlo. Ecco, il dare. Forse è proprio questo il filo conduttore, l’anello magico che tiene insieme tutte le sue molteplici attività, tutto il suo essere: dare storie, dare spunti, dare domande, dare emozioni. Un dare incessante e infaticabile che è un infinito atto d’amore verso il mondo e verso la vita.
Sinceramente non ricordo di preciso né come né quando le nostre strade si sono incrociate nel dedalo della rete. So soltanto che a un certo punto ho cominciato ad ascoltarla, a seguire le sue dirette. E che a poco a poco la sua voce calda e avvolgente è diventata una compagna insostiuibile delle mie giornate passate a scrivere.
Donna forte e coraggiosa nel senso più pieno del termine, ribelle per nascita, Anita ha occhi profondissimi in cui convivono dolcezza inquieta e curiosità incessante di bambina. Capace di mescolare fermezza e ironia, leggerezza e impegno, Anita ha soprattutto il coraggio di non voltare mai la testa. Di non avere paura né della gioia né del dolore.
Anita, giovane, giovanissima, conosce il vuoto incolmabile della perdita e il pieno sublime della felicità. Conosce la vita e sa come comunicarlo, con quella sua sensualità antica, quasi primordiale.
Anita, un nome che si è scelta facendo la crasi dei nomi delle sue nonne, Anna e Rita.
Anita, nome combattente e guerriero.
Anita, la migliore sintesi possibile al suo essere.
L’ho intervistata in una piovosa domenica di settembre, al telefono, lei in treno e io affacciato alla finestra. Come prima cosa parliamo del libro “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, che ha dato ispirazione a questi miei “c’era una volta”. Le chiedo se è una bambina ribelle. Certo che sì e assolutamente sì, mi risponde senza pensarci un secondo.
“E allora se la tua vita fosse una fiaba e cominciasse con ‘c’era una volta una bambina di nome Anita che…’, come continueresti questo incipit?”.
“C’era una volta… una bambina di nome Anita che aveva fame di vita. E per questo decise di nascere sotto un metro di neve, a marzo, con un mese di anticipo…”, mi risponde.
Quello che segue è quanto ha voluto raccontarci.

D – Anita, tu sei una speaker radiofonica. Leggo continuamente post che sono degli atti d’amore nei confronti di questo tuo lavoro. Ci racconti che cos’è per te la radio, cosa provi quando ti infili le cuffie?

R- Il suono della voce è ciò che racchiude tutte le mie attività. Fa compagnia e aiuta a pensare. Non ti impone un punto di vista. È un mezzo libero che mi ha consentito scambi meravigliosi con persone lontane, ma vicinissime umanamente e intellettualmente. Amo le parole che diventano certezza. Lavorare in radio, lavorare con le parole, è una continua costruzione di arcobaleni, di emozioni. E costruire un’emozione è l’artigianato dell’anima.

D- Ma dove comincia il viaggio di Anita verso la radio?

R- Forse è cominciato da sempre, da quando ascoltavo i mostri sacri di radio Rai… quando mi si è presentata la possibilità, ho capito di poter creare, con gli ascoltatori, un rapporto molto più intimo di quello con gli spettatori stando su un palcoscenico di teatro. La radio, a differenza del teatro, non impone un punto di vista. Questo però, paradossalmente, impone più attenzione e più responsabilità. Non ho la scusa di essere personaggio, in radio sono io con la mia voce. Avere attenzione e responsabilità verso chi ti ascolta è come prendersi cura delle persone che ami, anche quando hai l’anima in pezzi.

D- Ma la radio, è quello che voleva la bambina nata sotto un metro di neve?

R- La bambina voleva la radio, voleva il teatro. Soprattutto voleva il viaggio. Io penso alla mia vita come un viaggio in autobus. E la radio è la mia fermata attuale.

D- Tu sei particolarmente sensibile e attive in tematiche che riguardano la condizione femminile.
Perché secondo te c’è così bisogno di parlarne?

R – Siamo la più grande minoranza che esiste al mondo. Non è questione di porre o pretendere superiorità. La sfida è l’essere, uomo e donna, fianco a fianco. Solo percorrendo insieme la strada si raggiunge completezza. È il 2017, eppure continuiamo Nel 2017 . noi continuiamo ad avere problemi seri nell’occidente, nel cosiddetto “mondo libero”. Una parità di diritti vera non è ancora stata raggiunta, dal momento che ancora esiste un problema maternità, dal momento che ancora una donna è costretta a scegliere tra la carriera e la famiglia. La genitorialità di pari grado esiste solo sulla carta, ed è troppo poco.

D- Cosa vuol dire essere donna?

R- Voglio l’aiuto da casa!!! (pausa)
Essere donna vuol dire non essere quell’oggetto propagandato dal marketing. Il problema è la matrice patriarcale, in particolare in Italia. Si dice “moglie di” come si direbbe “appartamento di”. Credo che abbiamo perso di vista la bellezza di stare insieme, e abbiamo fatto vincere un senso morboso di appartenenza.
Comunque, per me, c’è una poesia che sintetizza al meglio cosa significa essere donna, ed è “Sono una donna”, di Joumana Haddad:
Nessuno può immaginare
quel che dico quando me ne sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi
come vengo sospinta quando vengo sospinta
cosa cerco quando lascio libere le mie mani.
Nessuno, nessuno sa
quando ho fame quando parto
quando cammino e quando mi perdo,
e nessuno sa
che per me andare è ritornare
e ritornare è indietreggiare,
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera,
e che quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
e io glielo lascio credere
e avvengo.
Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà
fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza di loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della prigione è la loro lingua
ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo.
D- Quando si sente impotente Anita?

R- Davanti alla morte e alla malattia.

D-Dove si sente forte Anita?

R- Nel saper incassare e nel sapermi sempre rialzare.

D- Cosa c’è nel futuro di Anita?

R- C’è che mio autobus non si ferma, vorrei non si fermasse mai.
Vorrei essere una vecchia signora di 90 anni con la dignità di aver affrontato i dolori che ti sono toccati in sorte. E contemporaneamente, con la stessa dignità, aver dato gioie e felicità.
Nel mio futuro spero ci sia il mio passato, che è una famiglia di grandi donne, di grandi storie di donne. Ho conosciuto la morte, l’ho toccata da vicino quando mia sorella è scampata miracolosamente a un incidente mortale e l’ho vissuta in questi giorni con la scomparsa di mio padre dopo una lunga malattia. Oggi amo pensare, grazie ai grandi esempi che ho avuto, che ogni giorno in cui mio padre è sopravvissuto alla malattia, sia stato un giorno strappato alla morte.
Un regalo, come la salvezza di mia sorella.

D- Cosa ti direbbe oggi quella bambina nata con un mese di anticipo?

R – Mi direbbe “grazie per tutte le esperienze meravigliose che mi hai fatto vivere”. Grazie perché l’ho protetta da tutti questi dolori che hanno cercato di stravolgere il mio equilibrio senza riuscirci.
E le direi che le prometto di incontrare un PRINCIPE BUZZURRO, un uomo vero che diventerà il principe azzurro delle future bambine.

Terminata l’intervista smette di piovere.
Spengo il computer ed esco di casa. Dappertutto c’è un profumo di settembre e asfalto bagnato.
Ripenso a tutto quello che mi ha raccontato Anita e frugo nella mia mente alla ricerca di un film che possa rappresentarla.
E alla fine scelgo “Il cielo sopra Berlino”.

A giovedì prossimo,
RL

#StorieDiBelleRagazze
#storieRiccardoLestini

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