L’ultima maglia di Pelè

Il calcio non mi piace più.
Anzi no, non è vero, il calcio mi piace ancora, ancora guardo le partite, seguo smaniando il saliscendi delle classifiche, i brividi dei sorteggi. Ancora tifo, urlo, m’incazzo.
Ma non ne scrivo più. Chi ha avuto il piacere o il dispiacere di leggermi, per lunghi o brevi periodi, sa quanto il calcio – tutto quanto, dalle finali in mondovisione alle partitelle su campetti di terra e fango – abbia sempre occupato un posto d’onore, importante e gigantesco, in tutto quanto il mio immaginario di scrittore.
Ma tant’è. Nonostante non sia capace di fare a meno di seguirlo – come un tossico consumato che, benché consapevole del veleno che assume, non smette di farsi – non riesco più a scriverne. Né, soprattutto, ho più voglia di farlo.
Perché il calcio – questo calcio, il calcio di oggi – non ha più uno straccio di quella poesia che mi ha sempre esaltato così tanto. Non è più – né più sarà mai – quel contenitore infinito di storie pazzesche, assurde, rocambolesche, grondanti polvere e sudore, lacrime e sangue, che magicamente e suo malgrado s’incrociavano alla Grande Storia, alla storia collettiva di genti, popoli e generazioni, rendendolo un’epica incredibile e incessante.
Ad esempio nelle ultime settimane è saltata fuori questa storia meravigliosa dell’ultima maglia indossata da Pelè durante la sua ultima partita da professionista, giocata con la squadra americana dei Cosmos, quella squadra creata “in laboratorio” mettendo assieme una pazzesca all stars di leggende a fine carriera (oltre Pelè, Beckembauer, Chinaglia… ) e che avrebbe dovuto (ma non ci riuscì) far esplodere la “soccer-mania” anche negli USA.
Ora questa partita doveva essere una festa, una passerella d’onore per l’immenso Pelè, una specie di serata di gala dove cercare di far segnare più gol possibili al mostro sacro e subissarlo di lacrime e abbracci a ogni marcatura. Compito reso ancora più facile dal fatto che gli avversari dei Cosmos sarebbero stati i Seattle Sounders, squadretta di onesti scarponi.
Fu, al contrario di ogni previsione, tutt’altro che una festa, tutt’altro che una passerella d’onore e tutt’altro che una serata di gala. Fu partita vera, verissima, dove gli onesti scarponi pestarono dall’inizio alla fine i fenomeni, dandogli la vita maledetta e facendoli sudare come non mai per tutti e novanta i minuti.
I Cosmos vinsero (di misura e molto più che a fatica) ma Pelè non segnò. Per tutto l’incontro gli s’incollò addosso un terzino di vent’anni – lo sconosciuto Jimmy McAlister – che non lo fece giocare né respirare, neutralizzandolo in maniera assoluta. Un privilegio che possono vantare pochi altri difensori al mondo. E pensare che McAlister era pure riserva, e quel giorno giocò soltanto perché il terzino titolare si era infortunato all’ultimo momento, durante gli esercizi di riscaldamento. Poi, nonostante quella marcatura perfetta su Pelè, McAlister dopo quella partita se ne tornò in panchina. E lì rimase, più o meno per tutta la carriera. Solo che quel giorno, il suo giorno, dopo averlo sistematicamente annientato, Jimmy McAlister a fine partita riuscì ad accaparrarsi la maglia di Pelè. L’ultima maglia indossata dal più grande giocatore del mondo.
Un cimelio con cui McAlister si sarebbe potuto arricchire a dismisura, viste le follie cui sono soliti fanatici e collezionisti di tutto il mondo. Ma non solo in tutti questi anni l’ex terzino panchinaro dei Sounders non ha mai venduto (né lavato) quella leggendaria ultima maglia (e ancora oggi non ha intenzione di farlo), ma fino ad oggi questa storia non l’aveva mai raccontata pubblicamente.
Ecco, il calcio di oggi non ha più storie come queste. Non le regala né le regalerà più.
Neymar, che è il calciatore più pagato della storia del calcio e che nella nazionale brasiliana indossa quel numero 10 che fu di Pelè, può fare giocate pazzesche, magie inenarrabili, gol impossibili… ma non ci lascerà mai racconti come questi, non sarà mai protagonista di storie simili. E non ci farà mai battere davvero il cuore.
Un discorso replicabile all’infinito per tutto quanto il calcio, di ogni latitudine. Pallone nostrano, ad esempio. Possibile che l’estate prossima, in Russia, capiti il miracolo impensabile e l’Italia vinca i mondiali. Ma pure se succedesse, Verratti, Bernardeschi o chi per loro, non avranno mai la poesia di Baggio. Non solo quella di Roberto, ma nemmeno quella di Dino Baggio (chi si ricorda il suo gol di testa alla Norvegia con l’Italia in 10 e con un piede già fuori dai mondiali americani?). E a proposito dei due Baggio, nemmeno le telecronache hanno più un briciolo di poesia. Non posso farci niente, ma ogni volta che vedo giocare l’Italia non posso fare a meno di chiedere: dov’è Nando Martellini che sbagliava i nomi di tutti i calciatori? Dov’è la voce nasale di Bruno Pizzul che manda a puttane il protocollo e, emozionato come un bimbo, chiama i due Baggio per nome (Dino-Roberto-ancora Dino-Roberto-Robertoooooo)?
Dov’è, in sostanza, quel calcio che non solo ci piaceva, ma sapeva commuoverci e farci tornare bambini? Dov’è quel pallone che rotolando tra piedi di eroi in calzoncini e calzettoni sostituiva ogni favola della buonanotte?

#storieRiccardoLestini

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