Il popolo in piazza (una storia del 1898)

Nel 1898 l’Italia era uno stato appena nato, fragile e poverissimo, lontano anni luce quella terra promessa tanto a lungo vagheggiata dal Risorgimento. Così, nel 1898, chi poteva e chi ci riusciva, dall’Italia emigrava verso altre terre promesse al di là dell’oceano. Chi restava, invece, provava a sopravvivere in qualche modo.
C’era ancora lo stato liberale, nel 1898, e ancora si votava per censo, così che ben più della metà della popolazione restava esclusa da qualsiasi consultazione elettorale.
C’erano i socialisti, nel 1898, cui il sistema elettorale per censo negava la stragrande maggioranza di elettori e che le leggi del presidente del consiglio Di Rudinì, nel 1896, avevano privato dei propri circoli, smantellati perché sediziosi.
E c’erano anche i cattolici nel 1898, coi loro circoli e le loro iniziative sociali a favore delle classi meno abbienti; anche loro smantellati dalle leggi eccezionali nel 1896.
C’era, nel 1898, il primo faticoso e farraginoso tentativo di industrializzare l’Italia e metterla al passo col resto d’Europa. C’erano le prime fabbriche, al nord, in quella Milano già nebbiosa e già immensa, già motore economico della penisola e già piazza caldissima.
C’erano gli operai, in Italia, a Milano, nel 1898.
Operai che sempre in Italia, a Milano, nel 1898, scesero in piazza per rivendicare i loro diritti.

Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio la tensione sociale, già altissima da anni causa la disoccupazione sempre crescente, i salari sempre più bassi e l’assoluta assenza di diritti per proletari, contadini e sottoproletari, era definitivamente esplosa per l’aumento vertiginoso del prezzo del pane da 35 a 60 lire al chilogrammo.
C’erano scontri di piazza in Puglia e in Romagna, mentre a Firenze e a Napoli era stato proclamato lo stato d’assedio.
Il Ministero dell’Interno, per tutto il territorio nazionale, considerata la situazione particolarmente delicata, aveva autorizzato le prefetture ad affidare il ristabilimento dell’ordine, qualora ce ne fosse stato bisogno, direttamente all’Autorità Militare competente.
Osservata speciale, ovviamente, la città di Milano, l’unica all’epoca veramente industrializzata, l’unica che poteva contare su una massa operaia davvero organizzita.

È il 6 maggio del 1898, un venerdì.
Temendo manifestazioni e altre proteste non autorizzate in città per il fine settimana, la polizia cittadina infiltra alcuni agenti negli stabilimenti più caldi e politicizzati, quelli della Pirelli.
Durante la pausa pranzo vengono distribuiti alcuni volantini in cui si accusa direttamente il governo di essere vero e unico responsabile della carestia che stringe in una morsa il paese da anni.
Scattano subito le segnalazioni e nel primissimo pomeriggio, esclusivamente sulla base di un volantino, vengono arrestati decine di militanti, operai e sindacalisti.
Filippo Turati, leader del Partito Socialista, deputato dal 1896, conosce alla perfezione il termometro della tensione sociale, sa che il ventre di Milano è un’enorme pentola a pressione pronta a esplodere da un momento all’altro con conseguenze imprevedibili e inimmaginabili. Così si muove di persona, conduce direttamente le trattative con la questura fino a ottenere il rilascio di tutti i militanti.
Tutti tranne uno. Gli operai della Pirelli, appoggiati dalle maestranze delle altre fabbriche cittadine, vogliono la liberazione del loro compagno e indicono uno sciopero generale per il giorno successivo.
Mentre stanno definendo lo sciopero, un gruppo di operai, circa un migliaio, spontaneamente, parte all’assalto della caserma dove è detenuto l’operaio della Pirelli. Gli scontri vanno avanti per tutta la sera, fino a che la fanteria dell’esercito non riesce a smantellare le barricate e a disperdere i manifestanti.
Il bilancio è durissimo: due operai e una guardia di PS morti, sei dimostranti gravemente feriti.
Ma è solo l’inizio.

Sabato 7 maggio il sole splende alto, altissimo su Milano.
E succede qualcosa di impensabile, clamoroso e mai visto. Di sicuro mai visto qui, in Italia.
Allo sciopero generale proclamato dagli operai risponde non solo il mondo delle fabbriche, ma tutto quanto il popolo.
Così, ai luoghi di concentramento, dalle prime ore del mattino, accorre una folla varia, fiera ed eterogenea fatta di operai e tabacchine, macchinisti e lustrascarpe, repubblicani, socialisti, anarchici, cattolici, cittadini qualunque non organizzati, uomini, donne e bambini.
La folla sciama e brulica in un crescendo di adrenalina, eccitazione e fermento. Si alzano barricate in ogni dove, da Porta Venezia a Porta Romana, da Porta Ticinese a Porta Garibaldi.
In una foto tremolante e ormai stinta e consumata di quelle ore incredibili, un ragazzetto che avrà sì e no quindici anni, spalanca le braccia e quasi, per la prospettiva dell’istantanea, pare abbracciare tutta la Ticinese. In mano stringe un bastone, sorride. È il 7 maggio del 1898 e il popolo, in Italia, per la prima volta scende davvero in piazza.

La prefettura, applicando all’istante l’ordinanza ministeriale, chiede l’intervento dell’esercito.
Responsabile dell’ordine pubblico è il generale Fiorenzo Bava Beccaris, cui il governo conferisce seduta stante pieni poteri, nominandolo “Regio Commissario Straordinario della Città e della Provincia di Milano”.
Si alzano tende in piazza Duomo: è il quartier generale di Bava Beccaris.
È il primo pomeriggio quando i militari cominciano a muoversi. Dapprima il generale ordina e predispone un movimento a raggiera della cavalleria dal Duomo alle porte principali, nel tentativo di disperdere progressivamente i manifestanti e poi smantellare le barricate.
Ma l’azione della cavalleria è respinta sia dalle barricate, sia dalla pioggia di sassi e tegole lanciati sui militari da altri manifestanti appostati sui tetti.
Bava Beccaris dà a questo punto l’ordine di aprire il fuoco. È un massacro: nemmeno un’ora e già è difficile contare il numero dei manifestanti caduti sotto il fuoco dell’esercito del Re (tra loro, anche semplici curiosi affacciati alle finestre).
Ma nonostante questo, a tarda sera, le barricate ancora resistono.

Non c’è più il sole, la mattina dell’8 maggio. Nuvole minacciose si addensano su Milano minacciando pioggia e temporali.
Cadrà qualche goccia, ma poi il vento a metà mattina le spazzerà via facendo tornare il sereno.
Nella notte sono giunti rinforzi: altri battaglioni, altri militari agli ordini di Bava Beccaris.
Pensa che un esercito numericamente ancora più imponente di quello del giorno prima possa annichilire psicologicamente i dimostranti.
Accade il contrario: i manifestanti quasi raddoppiano. Specie a Porta Ticinese, quella del ragazzetto della foto, dove la barricata è difesa da decine di migliaia di manifestanti. Tra loro, vecchi, donne e bambini.

È il primo pomeriggio quando un rombo assordante scuote d’improvviso Milano squarciandola in due. Poi un altro, poi un altro ancora.
Non è il temporale: il vento ha ormai spazzato via ogni nuvola.
È il generale Bava Beccaris, che ha dato l’ordine di aprire i cannoni contro i dimostranti.
I colpi di cannone si susseguono per ore alla cieca: uomini, donne, vecchi, bambini non importa. Quel che conta è colpire il mucchio, stroncare la rivolta, distruggere la barricata.

Alle otto di sera Beccaris telegrafa al Presidente del Consiglio Di Rudinì: “la rivolta può considerarsi domata”.
Sul campo ci sono circa 150 morti e oltre 400 feriti.
Tutti tra i manifestanti.

Il giorno dopo, lunedì 9 maggio, Bava Beccaris ordina una feroce e incessante caccia all’uomo per stanare tutti i dimostranti sfuggiti all’arresto.
È convinto che la maggior parte di loro si trovino nel Convento dei Cappuccini in viale Piave. I suoi bersaglieri vi fanno irruzione, ma trovano soltanto i frati e 150 poveri in attesa della mensa quotidiana. Non si fidano e li portano lo stesso in prefettura.
Ci metteranno due giorni, i frati, a spiegare che quei 150 – e loro stessi – non erano manifestanti.
A tarda notte cade l’ultima barricata, quella di largo la Foppa, dove a difenderla erano rimasti poche centinaia.
Altri 30 morti e oltre 50 feriti.
Gli altri tutti arrestati. Chissà che fine ha fatto il ragazzetto di Porta Ticinese.
È la notte tra il 9 e il 10 maggio del 1898 e il popolo non è più in piazza.

Quasi 200 morti (forse di più), un numero difficilmente calcolabile di feriti, cannoni sulla folla inerme (per questo, ricordiamolo, Bava Beccaris sarà insignito da Re Umberto I della Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia e ricompensato dal governo con un seggio in senato),
indiscriminata e selvaggia caccia all’uomo, arresti coatti.
Il tutto perché un popolo stava reclamando dei diritti sacrosanti e riassumibili in una sola parola: dignità.
Dignità sul lavoro e dignità nella vita.
Questo chiedeva quella folla brutalmente cannonnegiata.
Questo ha continuato a chiedere la folla per gran parte del ‘900.
E questo, purtroppo, siamo costretti a chiedere ancora oggi.

Buon 1 maggio a tutti.

#iNostriAntenati
#storieRiccardoLestini

***ogni lunedì su questo blog si parla di storia con la rubrica I NOSTRI ANTENATI
Non perdere lunedì prossimo, 8 maggio, L’ULTIMO APPUNTAMENTO STAGIONALE della rubrica con l’articolo ROBESPIERRE: L’UGUAGLIANZA E IL TERRORE.
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