Torquato Tasso era matto come un cavallo

Quando Jack Kerouac nelle prime pagine di “On the road” scrive ‘perché per me le uniche persone possibili sono i pazzi’ ha senz’altro in mente anche Torquato Tasso (no, non è vero per niente, probabilmente Kerouac non lo conosceva nemmeno Tasso, ma la verità a volte è così noiosa…).
Ad ogni modo, Kerouac o non Kerouac, Tasso resta un genio assoluto. Nonché uno dei miei poeti preferiti. Tasso era matto, completamente e senza rimedio, come e più di un cavallo. Soffriva di gigantesche manie di persecuzione, schizofrenia acuta, allucinazioni visive e uditive. Pretese di sua spontanea volontà di essere processato dal tribunale dell’Inquisizione. Assolto, un giorno si convinse di essere spiato da un servo della corte estense e gli tirò addosso un coltello. Rinchiuso nel convento di san Francesco a Ferrara, evase e volendo capire quanto i suoi cari gli volessero bene, si finse morto scrivendo una lettera con tanto di firma falsa in cui annunciava la sua morte alla sorella a Sorrento. Visto che le lacrime della sorella gli sembrarono sufficientemente sincere, decise di dirle la verità e di farsi vedere vivo e vegeto. Tornato a Ferrara però, si convinse che nessuno della corte gli voleva bene, così approfittò della festa di nozze tra il duca Alfonso e Margherita Gonzaga per dare pubblicamente e definitivamente di matto, sfasciando tavoli e sedie e distruggendo mezzo banchetto. Rinchiuso nell’Ospedale di Sant’Anna, stavolta non evase e ci rimase per ben sette anni. Nella prigione manicomio scrisse a mezzo mondo frasi del tipo: “vi prego, fatemi uscire, non sono pazzo….e poi qui dentro non riesco a scrivere, i folletti sotto il letto fanno un casino della madonna!!”.
Un matto vero insomma. Però con la penna in mano era un gigante. Diosanto che gigante. Il migliore del suo secolo e fra i migliori di sempre. Ebbene, questo mattarello d’un Tasso, questo violento e pericoloso schizofrenico, questo strambo figlio d’arte destinato a surclassare e a seppellire la fama del padre (Bernardo, mica male pure lui, tra l’altro), con la penna in mano ha capito come nessuno l’uomo e il suo tempo. Soprattutto l’uomo. Questo scriteriato pazzerello ad esempio è stato in grado (ci sono riusciti in pochissimi, a mio avviso) di non sottovalutare né di sopravvalutare l’amore, ma di innamorarsi e basta. C’era questa Lucrezia Bendidio che gli faceva girare la testa come nessun’altra e lui le scrive una serie di poesie infuocate e fiammeggianti. Sta donna non ha nessuna virtù universale, tranne quella di piacergli da impazzire (e da le bionde chiome/ legato sono, e da la man conquiso/ che basta a la vittoria inerme e nuda), e di mancargli come un braccio quand’è lontana (Già non son io contento/ lunge da voi, che sete il mio tormento,/ in cosí dolce modo/ m’arde il pensier; ma s’egli a voi mi giunge,/ io vi rimiro ed odo/ allora piú vicin che son piú lunge,/ ed amo ed ardo e godo/ piú del mio foco se maggior il sento). Contravvenendo alle regole della musa Unica e Sola, quel folle di Tasso si disamora pure, ma non come Catullo, che dice Lesbia non t’amo più e arrivederci. No, Tasso s’innamora di un’altra, tale Laura Paperara, e per lei scrive altre rime, altrettanto ardenti e fiammeggianti. Che anche il disamore e la molteplicità dell’amore fanno parte della vita e Tasso, che è matto, non ha paura né vergogna a dirlo.
È stato anche, il nostro amato pazzerello, tra i pochissimi a essere altamente erotico senza essere minimamente volgare. Vogliamo parlare della storia di Aminta e dell’ape? Parliamone. C’è questa favola pastorale, dove il protagonista, Aminta appunto, è un pastore innamorato cotto come una pera della ninfa Silvia. Il poveretto, come se non fosse già bello che rincoglionito d’amore di suo, si trova ad assistere a una scena che lo butta definitivamente fuori di testa: un’altra ninfa è punta alla guancia da un’ape, e Silvia cosa fa? Le succhia il veleno dalla guancia con le labbra. Ovviamente ad Aminta va il cervello in pappa e fa quello che farebbe qualsiasi uomo medio degno di questo nome: finge di essere punto a sua volta dall’ape proprio sulle labbra. Silvia abbocca e succhia il veleno (che non c’è) anche a lui. È una scena descritta con una poesia tale, con una dolcezza così avvolgente, con un delirio di sensi così alto da risultare conturbante ancora oggi, figuriamoci nel 1574. Ma è proprio in questo che quel maniaco depressivo di Tasso ha un’intuizione così geniale che più geniale non si può. All’epoca, da circa una trentina d’anni è (ri)nato il teatro come professione, e le piazze e gli stanzoni e le corti pullulano di attori professionisti d’una bravura imbarazzante (quella storia che per comodità siamo soliti chiamare Commedia dell’Arte). Questi attori sono discretamente disprezzati dai letterati che scrivono per il teatro, perché sostengono – i letterati – che gli rovinano le opere, le modificano, le adattano a loro piacimento. Non capiscono in sostanza – sempre i letterati – che è proprio così che funziona il teatro, che il sale di quest’arte è la manipolazione, la reinterpretazione. Tasso, che è fuori di testa, invece lo capisce, e anziché affidare la sua favola pastorale a un gruppo di scalzacani cortigiani lagnosi e dilettanti, la consegna nelle mani della più grande compagnia professionista del tempo, quella dei comici Gelosi, all’epoca capitanati dalla primadonna Vittoria Piissimi, bella che più bella di così si muore. Tasso sa che nessuno meglio di quel miracolo di bellezza che è la Piissimi può rendere, col proprio talento, la propria voce e il proprio corpo, la sensualità ignara e conturbante della ninfa Silvia. Manco a dirlo, il successo è clamoroso.
Della “Gerusalemme Liberata” infine, che dello psicopatico Tasso è il capolavoro asoluto, ci sarebbe da parlare per almeno un migliaio di pagine. Tuttavia mi censuro e mi limito a due-considerazioni-due. La prima: a proposito d’erotismo assoluto e mai volgare, io credo che certi episodi della “Gerusalemme” siano, a tutt’oggi, insuperati e forse insuperabili (ad esempio sono realmente convinto che solo la Circe di Omero possa competere con l’irresistibile potere di seduzione della maga Armida). Ma soprattutto, quel paranoico d’un Torquato, come pochi altri esseri umani al mondo, è riuscito a dipingere in versi un affresco spaventosamente immenso e reale della duplicità dell’animo umano, del contrasto perenne tra bene e male, tra amore e odio, tra onore ed errore, tra colpa e virtù, i cui confini si fondono e si confondono fino a rendere quasi impossibili giudizi e prese di posizione. E lasciandoci sgomenti davanti all’assurdità e alla tragicomicità di quell’avventura senz’altro immensa che è la vita.
Mica male insomma, per un pazzo furioso. È che in fondo, se la follia è – come penso e ho sempre pensato – nient’altro che un’improvvisa esplosione (per traumi, eccesso di sensibilità, sfortune, disagi o quant’altro) di quel gigantesco lato oscuro che ognuno di noi ha dentro (in sostanza, matti non si nasce ma ci si diventa), allora Tasso è il più scrittore tra gli scrittori. Nel senso: il nostro Torquatuccio qui presente ha fatto impazzire filologi e critici d’ogni epoca per stabilire quale fosse la versione definitiva di ognuna delle sue opere, riscrivendo e correggendo infinite volte ciascuna delle sue oltre duemila poesie, stampandole e rinnegandole di continuo, continuamente insoddisfatto, lavorando alla “Gerusalemme” per più di trent’anni, finendola, rinnegandola e riscrivendola ancora. Allora mi rivolgo agli scrittori adesso: cari scribacchini miei fratelli, chi tra voi non va sempre e sistematicamente fuori di testa al momento di licenziare un suo qualsiasi scritto? Chi tra voi non lo fa a malincuore e poi, una volta dato alle stampe, non si pente e non viene assalito dalla voglia di cambiare tutto o solo una virgola, di correggere un punto o riscriverlo tutto da capo? Ecco, tutto qui. Nel nostro Torquato pazzeriello era esplosa in maniera gigantesca questa nostra piccola follia. E chissà quante altre.
Uno psichiatra, a proposito dei quadri di quell’altro geniaccio folle che era Gino Sandri, disse: “anche il più rotto dei matti può giungere all’espressione più alta della creatività”. Mi piace spendere queste parole anche per l’immenso Torquato. Così come mi piace dedicargli le parole d’una canzone di De Gregori: “i matti vanno contenti sull’orlo della normalità, come stelle cadenti nell’oceano della tranquillità, trasportando grandi buste di plastica del peso totale del cuore, piene di spazzatura e di silenzio, piene di freddo e rumore…”; e, se non bastasse, anche le parole di quest’altra canzone di De André: “e sì anche tu andresti a cercare le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezzora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria…e dopo Maiale Majakovskij e Malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi Matto…”.