Il giorno del plebiscito
Più che alle primarie, oggi assisteremo a un vero e proprio plebiscito. Nelle percentuali sicuramente bulgare che l’ex premier Renzi si appresta a incassare, l’unica incognita è quella dell’affluenza. Incognita che comunque, in ogni caso, lascia il tempo che trova, visto che ogni numero – un milione, meno di un milione, più di un milione di votanti – verrà letto, e soprattutto raccontato dal PD come un successo.
Non è tuttavia il plebiscito in sé né la vulgata sui numeri la novità: il primo è già accaduto (penso all’investitura di Veltroni nel 2007 o anche a quella dello stesso Renzi nel 2013) e accadrà ancora, la seconda fa inevitabilmente parte del gioco politico.
Le novità di quel che accade oggi, e che accadrà da domani, vanno cercate altrove. C’è anzitutto un cambio epocale, un abbandono di una regola non scritta, ma sacra, della tradizione da cui il PD proviene, secondo cui il leader sconfitto e dimissionario, deve necessariamente farsi da parte. Oggi avviene l’esatto contrario: non solo non si fa da parte ma, paradossalmente rafforzato dalla scissione, si prepara alla sua incoronazione più piena proprio dopo aver subito le sue sconfitte più clamorose.
Cosa che eravamo soliti vedere solo nel campo opposto, con le continue cadute e risalite di Berlusconi.
Così, per quel che accadrà oggi, forse nemmeno “plebiscito” è il termine giusto. È molto più corretto dire che assisteremo a una semplice ratifica: Renzi, nonostante la caduta, nonostante la sconfitta, nonostante la sconfessione di una parte importante del suo stesso partito e del suo stesso elettorato, non ha mai smesso di essere, de facto, il segretario del PD. E forse non ha nemmeno mai smesso di essere premier. Ce lo ricordano quotidianamente i principali TG (Rai, Mediaset e Sky in testa) e i principali giornali (Repubblica, Corsera, Stampa), dove non passa giorno senza che non venga dato risalto all’opinione di Renzi su qualunque avvenimento, nazionale o internazionale. Continuamente interpellato su tutto senza che abbia alcun ruolo ufficiale, continuamente chiamato in causa ben più dell’attuale premier e di qualsiasi ministro. Per non parlare dei suoi avversari alle primarie, trattati più da sparring partners che da veri sfidanti.
Perciò continueremo a chiamarle primarie, ma non saranno altro che la ratifica di un ruolo che Renzi non ha mai smesso di ricoprire.
Chi oggi parteciperà alle primarie, chi ha scelto o sceglierà Renzi, chi la pensava diversamente e poi ha cambiato idea o chi ha accettato con entusiasmo questa svolta, è ovviamente liberissimo di farlo e nessuno ha diritto di delegittimare tali scelte.
Ma è un fatto innegabile come quella politica inventata vent’anni fa da Berlusconi, che antepone sempre e comunque il nome, l’immagine e l’appeal del singolo leader, oggi venga definitivamente adottata dal centrosinistra. Un fatto come la politica della partecipazione, del collettivo, del noi prima dell’io e degli ideali, oggi muoia definitivamente. E come Matteo Renzi le abbia sferrato la pugnalata decisiva.