Celine

Si chiamava Celine ma non era francese.
Era alta e fiera. Aveva capelli neri quasi sempre legati e pupille limpide e solitarie come certi addii nelle stazioni di provincia.
La prima volta che la vidi era ottobre in un locale zeppo di gente e fiati e sudore. Ballava a pochi centimetri da me una pizzica indiavolata. Si muoveva con quella grazia speciale increspata di durezza e malinconia che hanno solo le ragazze alte. Aveva chilometri di schiena, gambe impossibili da abbracciare e ai piedi stivaletti così leggeri da farmi girare la testa. Quella sera eravamo troppo sbronzi per parlare, eppure ci scambiammo due sorrisi che volevano dire molto più di qualcosa.
Quando la rividi c’era pioggia e minaccia d’inverno. E ancora musica. E ancora la ritrovai vicinissima mentre la band sul palco suonava un pezzo di Rino Gaetano. Aveva braccia scoperte e un cappello nero che mi faceva battere il cuore. Alla fine del concerto parlammo molto, tornando a casa tra assurde vetrine spente e fendendo assieme ad altri amici l’aria umida dei lungarni.
Ero già innamorato. Uno di quegli innamoramenti feroci e inconsolabili che senza un senso apparente di colpo colorano di sé ogni attimo della giornata. E che rendono fragili e paralizzati come adolescenti. Per questo nei giorni e nelle settimane che seguirono fui capace soltanto di costruire una strana e pericolante amicizia imbottita di doppi sensi e sottotesti. Ogni volta che ci vedevamo era un’infinita schermaglia fatta di scherzi, falsi insulti, risate, provocazioni. Bellissima ed estenuante.
Poi a una festa in cui tutti eravamo vestiti da qualcos’altro Celine ed io finimmo nella penombra di una stanzina minuscola e spoglia. Passammo due ore a parlare e un istante a guardarci in silenzio. E in quell’istante io caddi nei suoi occhi.
Il giorno dopo ci trovammo nel freddo del tardo pomeriggio e passeggiammo ore per le strade del centro senz’altro rumore che non fosse il frusciare dei nostri cappotti l’uno contro l’altro. Bevemmo un tè bollente e senza sapore in un locale bianchissimo, e sorseggiando e ridendo le regalai un libro su cui la mattina avevo vergato una dedica che tra mille spazi bianchi diceva ogni cosa. Lei capì e ancora senza sbilanciarsi mi regalò l’ennesimo sguardo. Prima di salutarci, a sera ormai fatta, non ricordo perché lei disse che “Aspettando l’infinito” sarebbe stato un bel titolo per una storia. “La scriverò, la scriveremo”, dissi io. Seguì silenzio e ancora uno sguardo che di nuovo mi fece inciampare e perdere nei sentieri insondabili delle sue pupille. L’abbracciai fortissimo e stringendola per la prima volta sentii come la sua schiena fosse realmente infinita. Rubai una specie di bacio all’angolo della sua bocca e sparii silenzioso nella notte. Subito dopo lei partì per un breve viaggio.
Quando tornò, dopo dieci giorni, qualche messaggio e infiniti miei batticuori, la portai su un treno a vapore pieno di bambini urlanti che partiva all’alba e sbranava sbuffando la campagna del Mugello. Fu una mattina senza tempo, da amanti clandestini stupefatti e assonnati, ringiovaniti e increduli. Anche quando quel treno assurdo ci riportò a Firenze restammo come sospesi, galleggianti tra la folla cittadina senz’altro da aggiungere. Sotto casa sua l’abbracciai di nuovo e finalmente la baciai. Un bacio strano, immacolato e intenso, purissimo e fatale. Me ne andai subito dopo, con addosso l’euforia straziante che si ha solo dopo il primo bacio.
Ci rivedemmo la sera stessa, e a notte ormai fonda, locale quasi deserto e negli occhi di ognuno una dolce stanchezza quasi d’abbandono alle vaghe minacce d’amore rapprese alle pareti, Celine riposò la sua mano nella mia e la durezza dei suoi occhi si sciolse in uno stringermisi addosso ch’era già promessa d’un bacio imminente. Un bacio dato prima di dirci buonanotte. Di quelli che lasciano muti e insonni. E in quell’insonnia capii che per me l’infinito era arrivato davvero, che dopo mesi (anni?) di cuore gelido e storie fugaci ero finalmente e di nuovo pronto all’amore. Pronto all’infinito.
Quello che non capii, stordito da quella gioia cristallina di gennaio, fu che Celine pronta non lo era ancora, che la sua strada per l’infinito e l’amore contava ancora chilometri e chilometri. E quello che per me era l’inizio, per lei fu la fine.
Così il giorno dopo non volle nemmeno vedermi e mi fece arrivare una lettera piena di niente dove diceva soltanto scusami, mi dispiace, non posso, sei meraviglioso, non ce la faccio, sei la persona migliore che abbia mai incontrato, non posso, non posso. Addio.
In realtà tra gli spazi bianchi di quella lettera per me piena di niente c’era anche un ‘non ancora’. Ma io non riuscii a vederlo. Fui capace soltanto di provare stupore e dolore, rancore e furore. Qualche giorno dopo Celine, confusa e dispiaciuta, in colpa per avermi spazzato via con una lettera e nemmeno uno sguardo, mi chiese di vederci. Passeggiammo in centro per ore come se non fosse successo mai niente. E non c’era bisogno di far finta, era davvero come se non fosse successo niente. Perché tra me e Celine non poteva essere diversamente: c’era tra noi una sintonia così potente, un’identità d’anime così remota e primordiale che, insieme, avremmo potuto passare bei momenti anche nel mezzo d’un naufragio. La passeggiata ci portò in un bar silenzioso dove ancora una volta ordinammo un tè caldissimo e privo di sapore. Ma non lo bevemmo. Di colpo ci allacciammo in un abbraccio brutale e spaventoso, straziante. Non ricordo quanto durò, forse un’ora, forse più. Ricordo solo che nell’abbraccio percorsi all’infinito con le mani la sua schiena e che per la prima volta ebbi la percezione del suo corpo. E ricordo solo che con la stessa violenza con cui era cominciato, finì. Celine si alzò di fretta e fuggendo i miei occhi disse soltanto “scusami, così mi sembra di prenderti in giro”. Poi se ne andò.
Mi abbandonai alla sconfitta, alla tristezza d’un amore mai accaduto, al dolore piantato al centro del cuore d’un sentimento non corrisposto, al gigantesco senso d’assurdo di chi non capisce come un’affinità così enorme possa essere buttata via senza un perché. In realtà di nuovo non riuscii a capire che quello era il suo modo tutto speciale di chiedere tempo, di chiedermi d’aspettarla. Non riuscii a capire che non era un amore non corrisposto, ma un incontro mancato tra chi, io, era già arrivato all’infinito e chi, lei, non c’era arrivata ancora. Così, ferito a sangue, invece di aspettarla, mi abbandonai e l’abbandonai, soffrendo soltanto e, in attimi di rancore, trovando pure il tempo di odiarla.
Poi passò, come passa tutto comunque e tuttavia.
Ma mesi dopo Celine, quell’infinito maledetto, lo raggiunse. Me lo fece capire a modo suo, senza parlare, da piccoli cenni che solo io potevo cogliere, dalla durezza dei suoi occhi ora finalmente sciolta in una continua richiesta d’amore, dalle sue mani d’improvviso pronte all’abbandono. Ma io ero lontanissimo ormai, avevo un’altra donna da stringere la notte e quell’inverno passato di tè bollenti e passeggiate non sapeva più graffiarmi il cuore. Lei capì senza bisogno di spiegazioni e, silenziosa come sempre, sparì. Era il nostro secondo incontro mancato. Un incontro mancato tra chi, io, dall’infinito era stato strappato via dal tempo che passa e chi, lei, all’infinito era giunta alla fine di un lento e tortuoso purgatorio.
Poi passò anche a lei. Non so quando né come né perché, ma passò, come passa tutto comunque e tuttavia.
Ritrovai Celine più di un anno dopo. Io di nuovo solo e lei trasferita in un’altra città senza che ne avessi saputo nulla. All’inizio furono telefonate, confidenze di reciproci disastri e scoramenti, intimità varie e sparpagliate. Seguirono lettere di nuovi equivoci e rinnovati sottotesti, voglia di rivedersi strisciante e inconfessabile. Poi Celine accettò una proposta di lavoro in Inghilterra e tutti i vaghi propositi di rivedersi e i relativi chissà si ritrovarono sepolti dal peso delle contingenze.
Una sera, qualche giorno prima di trasferirsi definitivamente in Inghilterra, Celine venne a Firenze per salutare tutti. Ci ritrovammo nel locale in cui l’avevo vista la prima volta mentre ballava quella pizzica indiavolata. Era sempre la stessa, sempre capelli legati e pupille limpide, autostrade di schiena e gambe infinite, abiti a tinte scure e stivaletti leggeri. E la stessa grazia omicida increspata di durezze inconsolabili.
Bevemmo e festeggiammo tutta la sera. E anche quella sera, come se non fosse passato nemmeno un istante, ritrovammo quel modo speciale e solo nostro di essere in due anche in mezzo alla gente. Poi uno dopo l’altro se ne andarono tutti gli amici lasciandoci soli fuori dal locale nel freddo della notte. Era di nuovo inverno. Ridendo come pazzi, ubriachi e senza più nulla da perdere, iniziammo a rinfacciarci il passato, i nostri incontri mancati, la sua fuga d’inverno, il mio non capire, il mio non aspettarla d’estate. E ancora ridevamo delle nostre disgrazie quando sui lungarni prese ad albeggiare.
Scese improvviso il silenzio, ma non d’imbarazzo. Fu silenzio di quiete e dolcezza. Percorremmo quel centinaio di metri che ci separavano dalla casa dove lei era ospite mano nella mano. Sotto il portone restammo ancora in silenzio, a guardarci addolcendoci entrambi. E poi un bacio, inevitabile e affamato. Lunghissimo. In una storia normale, forse banale, a quel punto saremmo scivolati nel suo letto e avremmo fatto l’amore fino a star male, fino a cadere addormentati l’uno nell’altra. Ma non era una storia normale, forse banale. Eravamo io e Celine. Lei sarebbe partita, la mattina dopo e per sempre, e sarebbe stato troppo triste dirci addio in quel modo. Eravamo io e Celine. E ci volevamo troppo bene per dirci addio in quel modo. Pensavamo entrambi queste cose e non ci fu nemmeno bisogno di dircele: ce lo leggevamo negli occhi.
Così il nostro addio fu quel bacio silenzioso e l’abbraccio che seguì. Fu lei che spariva nella notte e io che riprendendo i lungarni tornavo a casa nel chiarore dell’aurora.
Io che pensavo poi chissà, un giorno un disegno sghembo del destino ci metterà finalmente nello stesso incrocio e finalmente percorreremo la medesima strada.
Io che pensavo Celine che meraviglia salutarsi così, che meraviglia volersi così bene, che meraviglia il nostro strano matrimonio d’anime. Che poesia questo nostro terzo incontro mancato.

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