CATERINA

Mai saputo il vero colore dei capelli di Caterina. Ma aveva occhi nocciola e fianchi larghi che coprivano l’orizzonte. E sapeva sorridere e uccidere con quei sorrisi la mia serietà di ragazzo già adulto. Andava male a scuola, aveva casini colossali in famiglia ma aveva la forza della gioia con cui dipingeva ogni giornata, mentre io, famiglia perfetta e voti alti, sbattevo in mille ombre e in mille tristezza a ogni passo. 
A Caterina piaceva essere un maschiaccio, fumare sigarette all’angolo della bocca, bere vino dalla bottiglia, mettere pantaloni sformati e fregarsene di essere carina e piacere agli altri.
 
Aveva capelli castani striati di rosso il giorno che brandendo un pennarello come una spada mi disse “il rosso è finito, lo faccio verde, è uguale?”, e io non le risposi perché non avevo tempo, perché dovevamo fare presto e andare in piazza, perché era una pischella in mezzo ad altre cinquanta pischelle, perché c’era troppo neon quella sera a confondere il nocciola dei suoi occhi. Ma Caterina se ne fregava delle convenzioni e decise di conoscermi anche se io non volevo, e mi rubava il diario e leggeva cose mie che nessuno avrebbe dovuto leggere mai. Non aveva mezze misure e allora un giorno mi scrisse una poesia ingenua e straziante, e visto che io tardavo a rispondere mi fece recapitare un biglietto con scritto ‘brutto imbecille, l’hai capito o no che mi piaci?’.
 
Caterina aveva capelli color prugna acceso il giorno in cui incise il mio nome sul marmo della piazza degli autobus, lo stesso giorno in cui senza dire altre parole mi baciò con forza e agganciò il suo braccio alla mia vita.
 
Caterina era così spontaneamente ribelle a tutto che non aveva bisogno di ribellarsi a niente. Era troppo occupata a vivere per pensare ad altro, troppo occupata a distruggere lo sfascio inquietante di casa sua per fermarsi e riflettere, troppo occupata a riempirmi le giornate per piangere e immalinconirsi. Sapeva rollare le canne in due minuti, scolarsi mezza bottiglia di vino in pochi istanti, cantare canzoni straniere senza essere intonata e senza conoscere la lingua. Con le canne e le sigarette faceva cerchi di fumo perfetti, provava a insegnarmi come fare, ma non ero capace, ogni tentativo falliva miseramente e lei mi prendeva in giro esplodendo in risate fragorose e assordanti.
 
Caterina sapeva come farmi dimenticare l’angoscia dei miei diciott’anni. Si sdraiava e si rotolava sui prati, si riempiva le braccia con tatuaggi artigianali fatti a penna e costruiva braccialetti con le perline colorate. Lasciava che le mie mani le percorressero quei fianchi immensi e che la accarezzassero sotto la lana ruvida dei vestiti. Mi baciava per ore, affamata e sorridente.
 
Caterina aveva capelli neri come la notte il pomeriggio che si spogliò e slacciandomi i pantaloni mi condusse nel suo mistero più antico. Ed avevamo la pelle giovane e rovente e innamorata e soffiava vento gelido tra i nostri capelli.
 
Non ricordo perché Caterina e io ci lasciammo. Ma c’era il sole quel giorno, e lei aveva i capelli d’un blu elettrico accecante. Non ricordo davvero perché, ma subito dopo smisi di provare a fare i circoletti di fumo con le sigarette.
L’ultima volta che parlammo lei mi chiese un consiglio per un tema che doveva fare. “Una ragione per vivere?”, mi domandò. E io non seppi risponderle.
 
Poi Caterina fu bocciata e cambiò scuola. Forse cambiò anche città, perché non la rividi più.
 
La rincontrai un paio d’anni dopo. Camminava per strada, appena maggiorenne, e spingeva una carrozzina gigante con dentro due gemelli. Parlammo di niente per dieci minuti e alla fine ci salutammo con un bacio sulla guancia e un verso divertente ai due neonati.
 
Forse faceva molto freddo quel giorno, ma non ricordo bene. Ricordo solo che dal suo berretto spuntavano ciocche di capelli color biondo platino.
 
No, davvero non ho mai saputo quale fosse il vero colore dei capelli di Caterina.
 
No, davvero non ho mai imparato a fare i circoletti di fumo con le sigarette.

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