Noi che siamo Roberto Baggio

“Un miracolo di pura inesistenza”, un verso che rubiamo a Montale per parlare di Roberto Baggio senza alcuna paura di essere sacrileghi.
Perché Roberto Baggio è una poesia. Forse più di una poesia. Un poema intero e sterminato, eroico, triste, malinconico, romantico, esaltante, spietato, disincantato, rabbioso, magico.
Un poema che oggi compie cinquant’anni. E in un certo senso siamo tutti quanti noi a compierli, questi cinquant’anni. Noi che questo poema abbiamo avuto il privilegio di leggerlo dall’inizio alla fine nel suo stesso farsi. Noi che possiamo essere tifosi della Juve, della Fiorentina, dell’Inter, del Milan, del Napoli, della Roma, del Bologna, della Lazio o di chissà chi altri, ma che Baggio è sempre stato Baggio al di là della maglia, regalandoci brividi, batticuori, sogni e magie frantumando le sacre regole del tifo calcistico. Noi che Baggio ce lo abbiamo dentro e ogni volta che guardiamo la nazionale, ancora oggi, non rinunciamo al sogno impossibile di vederlo ancora giocare con quella maglia. Noi che, in definitiva, siamo Roberto Baggio senza troppo da aggiungere.

Un’epica irripetibile e senza precedenti.
Un personaggio completamente al di fuori delle regole, irriducibile a qualsiasi consuetudine, diverso anche tra i diversi. Gli “irregolari”, gli atipici, i grandi ribelli della storia del pallone, hanno sempre fatto rumore: Cruijff, Maradona, Best, Cantona… tanto per citarne alcuni.
Baggio, al contrario, è stato ribelle nel silenzio e nell’assenza.
“Un miracolo di pura inesistenza”, si diceva. Perché questo è stato ed è Baggio: una presenza continua, totale e gigantesca nel non esserci. Oggi come ieri.
Oggi Baggio è scomparso, non c’è. Fuori dal mondo del calcio, non rilascia interviste, non presenzia in alcun dove, unico fra i mostri sacri del calcio che fu a non aver mai ceduto a nessuna operazione nostalgia, a nessun festival dell’Amarcord, a non aver mai trasformato se stesso in una celebrazione vivente del passato.
Ma non c’era nemmeno ieri, Baggio. Mentre il calcio trasformava i suoi protagonisti in divi da passerella, lui già sceglieva il silenzio, preferendo le battute di caccia alle fotografie, le cene con gli amici ai locali alla moda, la famiglia ai salotti tv.
E spesso, Baggio, non era nemmeno in campo. I lunghi infortuni, i dolori, le ginocchia sfasciate. Oppure gli allenatori: Lippi soprattutto, ma anche Capello, Ulivieri e molti altri. Spaventati e impossibilitati a capire quell’immensità, incapaci di inserire quella splendida anomalia nella rigidità degli schemi di gioco, costruirono il paradosso per cui il più grande calciatore italiano di sempre collezionò in carriera una quantità di panchine ed esclusioni inspiegabili e assurde.
Eppure, tanto in quegli infortuni quanto in quelle panchine continue, Baggio continuava a esserci, nella sua assenza rumorosa, nel suo silenzio assordante.
Un miracolo di pura inesistenza, appunto.

Un eroe solitario, gli occhi malinconici dell’esule e la determinazione ostinata del titano.
Oscuro e dolce al tempo stesso, votato al sacrificio e al rimpianto, in carriera ha vinto poco, pochissimo, praticamente nulla in proporzione al suo talento. Eppure, ennesimo miracolo d’inesistenza, sono più immense le sue sconfitte che le vittorie ottenute senza di lui. È più storia del calcio quel rigore maledetto calciato da Baggio tra le nuvole di Pasadena a Usa ’94 che quello con cui Grosso spiazza Bartez regalandoci la Coppa del Mondo a Berlino.
Una specie di vendetta dell’eroe ferito su quel Marcello Lippi che lo umiliò e lo escluse più di ogni altro allenatore: conta più la grande illusione del 1994 che la grande impresa del 2006.

Un po’ Ettore, che da solo guida una riscossa impossibile per poi perdere e morire a un soffio dalla vittoria (non solo Usa ’94, ma anche Francia ’98, quando contro i padroni di casa un suo tiro al volo uscì di un niente, un paio di centimetri che ci avrebbero spedito in semifinale), e un po’ Prometeo, dispensatore di luce all’umanità intera e per questo punito dagli dei con l’incomprensione e la solitudine.
Destino dei poeti: incompreso dai tecnici e idolatrato dal popolo. Una specie di cavaliere errante fragile e geniale che infiamma le piazze, spezza i cuori e fa imbestialire i regnanti.

Ricordare Baggio in una galleria di immagini è impossibile. Troppe emozioni, troppi gol incredibili e palpitanti, troppe lacrime miste a grida di esultanza. Le istantanee si confondono e si accavallano, con la colonna sonora di Pizzul che manda beatamente a puttane il protocollo del commentatore chiamandolo semplicemente “Roberto” con la voce rotta d’emozione. Quel torrido settembre del 1989, al San Paolo di Napoli, quando tutti aspettavano il ritorno di Maradona e invece fu Baggio, maglia viola, riccioli arruffati e codino ancora di là da venire, a prendere il pallone nella sua metà campo e a squarciare cielo e leggi della logica dribblando a passi di valzer l’intera squadra del Napoli e depositando la palla in rete. O il tiro chirurgico che attraversa lento e implacabile una selva di gambe nigeriane, l’assist impossibile di Signori e il gol da fondo campo alla Spagna e “vieni qua Beppe”, la doppietta sublime che spezza la Bulgaria. O tanti anni dopo, aprile 2001, codino grigio, ginocchia scricchiolanti e addosso la maglia del Brescia, ma un piede ancora in grado di fare una carezza che dà i brividi (“beati i palloni che hanno giocato con lui”, sospirò Mazzone) per addomesticare un pallone sventagliato da Pirlo, aggirare con passo di danza i due metri di Van Der Saar e depositare la palla in rete.
Immagini che si confondono e si accavvallano e non smettono di incendiarci la memoria e di ripercorrere la storia di tutti quanti noi.
Noi che siamo Roberto Baggio.
Tanti auguri, campione.

#storieRiccardoLestini

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