L’Italia va alla guerra

Alessandro Baricco nel romanzo “Questa storia” (a nostro modesto parere la sua opera più riuscita) scrive pagine davvero memorabili sulla prima guerra mondiale.
In particolare lo scrittore riesce a cogliere quello stato d’animo di folle entusiasmo e cieca esaltazione con cui, più o meno un’intera generazione di giovani e giovanissimi europei, tra il 1914 e il 1915, si gettò inconsapevole nella tragedia della Grande Guerra.

Scrive Baricco:
“Senza dirlo, si amavano, e questa gli sembrava, semplicemente, la parte migliore di sé: la guerra l’aveva liberata. Era d’altronde proprio ciò che erano andati a cercarsi, ognuno a modo suo, compiendo quel gesto oggi incomprensibile che era stato volere la guerra, e, in molti casi, andare volontariamente alla guerra”

Un aspetto tutto psicologico – ma non per questo meno storico, visto che è uno dei quei casi in cui si potrebbe parlare di “psicologia collettiva” o “psicologia generazionale” – su cui solitamente si tace e si sorvola.
Questo perché, negli schemi con cui siamo soliti raccontare, spiegare e studiare la storia, spesso dimentichiamo come tra gli elenchi, più o meno sommari, più o meno approfonditi, delle cause e dei contesti che hanno generato una guerra, ci siano società fatte di uomini, individui, collettivi, generazioni i cui movimenti risultano determinanti per comprendere e decifrare nel profondo gli avvenimenti.
Così, per quanto possiamo ricostruire il complesso intricato di concause che determinarono la Grande Guerra, per quanto ognuna di esse – dal “revanchismo” francese nei confronti del Reich tedesco alle questioni coloniali, dall’irredentismo italiano agli opposti interessi della Russia zarista e dell’Austria asburgica sui balcani – possa facilmente inserirsi nella logica storica dei nessi causa-effetto, se non prendiamo in esame, se non analizziamo quella “psicologia collettiva” (o psicosi collettiva, se si preferisce), continuerà a sfuggirci e a sembrarci impossibile e illogica qualsiasi risposta a questa domanda: cosa sono quei sorrisi accesi di vivido ardore, quegli occhi avvampati di entusiasmo e smania di vita e avventura che vediamo, chiaramente in ogni traballante filmato d’epoca, addosso a tutti i giovanissimi soldati in partenza per il fronte? Perché quei ragazzi, quei ragazzini imberbi con morbida peluria al posto dei baffi, ridono d’emozione e gioia mentre partono per un viaggio che li porterà all’orrore, che nel migliore dei casi li ricondurrà a casa folli e, nel peggiore, li seppellirà in una trincea sotto quintali di altri morti, altra merda, altro sangue?

Proviamo a rispondere parlando dell’Italia.
È arcinoto come l’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915), giunga al termine di un feroce e drammatico dibattito tra “neutralisti” e “interventisti”. Schieramenti trasversali, che non sempre rispecchiavano i reali posizionamenti delle forze politiche, che anzi videro gli stessi partiti spaccati al loro interno (la spaccatura più celebre ed evidente fu quella dei socialisti, dove la minoranza del partito – tra cui Benito Mussolini – si schierò dalla parte interventista).
Abbastanza noto è anche come la maggior parte del mondo politico, e del Parlamento, dai liberali alla quasi totalità del Partito Socialista fino a tutta l’area cattolica, fosse saldamente schierata su posizioni neutraliste.
Sempre noto è, infine, come di fatto fu una sorta di silenzioso e sotterraneo colpo di stato a spingere l’Italia in guerra, dove la minoranza interventista, sfruttando da un lato la debolezza della maggioranza e del parlamento, e dall’altro l’appoggio dell’alta borghesia, degli industriali e di tutti i poteri economici, seppe manovarare l’opinione pubblica con un’abile e infuocata propaganda.

Tutto assolutamente vero. Ma non basta.
Non basta a spiegare il fervore convinto di quella gioventù, l’entusiasmo, l’esaltazione. Per farli accorrere a migliaia come volontari, per farli partire con quella gioiosa frenesia e quell’incontenibile spirito d’avventura, non sarebbe bastata l’abilità propagandista degli interventisti, l’oratoria di D’Annunzio o il clima infuocato delle manifestazioni di piazza durante le “radiose giornate di maggio”. Doveva esserci qualcosa di più profondo che, quella propaganda, quell’oratoria e quel clima infuocato, aveva saputo risvegliare.
Per trovarlo, quel qualcosa di più profondo, occorre fare un passo indietro nel tempo. Alla seconda metà dell’Ottocento per l’esattezza, a quella rivoluzione industriale che, nello spazio di un niente, aveva stravolto il mondo con una serie di invenzioni e scoperte impensabili fino a poco prima. Un progresso improvviso e incontrollabile in grado di regalare condizioni e aspettative di vita migliori, di accorciare le distanze e abbattere le barriere tra i popoli. Ma che, al tempo stesso, avrebbe potuto innalzare barriere ancora più grandi, rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, concentrare potere e diritti nelle mani di un numero sempre minore di persone, mettere in mano all’umanità il potere terribile di autodistruggersi.
Già Giovanni Verga, a rivoluzione industriale in pieno svolgimento, ammoniva la società sui rischi inimmaginabili di un progresso che non va di pari passo con lo sviluppo (la stessa cosa che dirà Pasolini decenni dopo, in pieno boom economico), su un mondo che rischia di farsi sempre più arido e disumano.
Resterà inascoltato. E la Prima Guerra Mondiale sarà la tragedia con cui l’umanità sancirà definitivamente il suo patto perverso e sanguinario con il progresso industriale e tecnologico, la scelta suicida di usarlo non per rendere il mondo migliore, ma per il suo contrario.

E davvero solo mettendola in relazione con la seconda rivoluzione industriale, con le contraddizioni e gli equivoci che la segnarono, possiamo davvero capire cosa fu la Grande Guerra.
E capire cosa fu quell’entusiasmo giovanile nell’abbracciarla come una benedizione.
Perché ci era cresciuta, quella gioventù, con la seconda rivoluzione industriale, con il culto del Nuovo che irrompeva continuamente nella quotidianità di ognuno. Poteva essere un’automobile dal motore scoppiettante, un biplano transitante a bassa quota, il cinematografo, la fila di lampioni in città o chissà che altro: qualsiasi cosa mostrava la potenza immane del progresso, della velocità, dell’inarrestabile.
Ma era una velocità e un inarrestabile che, pur entrandogli dentro, veniva calato dall’alto.
Quella gioventù – come ogni gioventù di tutti i tempi e di tutti gli spazi – ardeva, voleva farsi velocità e inarrestabile essa stessa, voleva essere progresso incarnato, voleva che i loro corpi giovani e infuocati fossero i protagonisti e gli artefici di quel fermento, di quell’acciaio, di quel piombo, di quei motori rombanti.
L’equivoco gigantesco – e fatale – di quella generazione fu che vide la guerra come l’unica possibilità di realizzare tutto questo.
Gli interventisti, D’Annunzio e tutti gli altri, che conoscevano il potere dei nuovi mezzi di propaganda meglio di chiunque altro (sicuramente meglio della maggioranza neutralista) sapevano che avrebbero risvegliato quelle viscere, quella profondità, quel sogno.
Il sogno di farsi storia e progresso.

Finì con milioni di morti, altrettanti mutilati e un numero incalcolabile di reduci segnati per sempre.
Finì con una follia destinata, ancor più follemente, a ripetersi ancora peggiore.
Con un progresso che ancora oggi non vuol dire sviluppo e con società che ancora oggi non sanno offrire, ai loro ragazzi, niente di meglio che sangue e morte.

Chiudiamo come abbiamo aperto, con Baricco:
“Tutti avevano risposto, d’istinto, a una precisa volontà di fuga dall’anemia della loro gioventù – volevano che gli si restituisse la parte migliore di sé. Erano convinti che esistesse, ma che fosse ostaggio di tempi senza poesia. […] Per questo noi oggi possiamo guardare increduli le foto di questi uomini che si alzano dal tavolino e abbandonando bicchierini blandi di alcolici corrono all’ufficio di leva, sorridendo all’obiettivo, con la sigaretta ai labbri, e nelle mani, sventolata, la prima pagina di giornali che annunciavano la guerra – una guerra che poi li avrebbe maciullati, nel più orribile e metodico dei modi, con una pazienza che nessuna ferocia bellica, prima, aveva uguagliato. In un certo senso cercavano l’infinito. Volendo riassumere la tragedia di quegli anni, si potrebbe dire che fu la mancanza di fantasia a distruggerli – non si era immaginato niente di meglio che la guerra, per accelerare il battito dei cuori.”

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