Firenze, Campo di Marte

Firenze, esterno, giorno, zona Campo di Marte, più o meno le quattro e mezza di pomeriggio, strade larghe e lunghe che squarciano la città tra viale Mazzini e viale Gioberti. Qualche brutta vetrina, un paio di bar che ancora ricordano un quartiere che fu, molti bar anonimi, ma soprattutto case, palazzi, portoni, campanelli, nomi.

Lui, immobile sotto uno di questi portoni spietati e senz’anima. È nervoso, con un imbarazzo che gli percorre le mani e gli fa i gomiti ingombranti. Cerca di distrarsi, ma la strada è troppo dritta e troppo lunga, non se ne vede la fine e nemmeno una svolta o una deviazione a variare la noia di quell’asfalto. Aspetta, scavando sul marciapiede con la punta delle sue scarpe da tennis, stringendosi sul giubbotto che improvvisamente gli sembra troppo corto. Inadeguato. Aspetta, un po’ impaziente e un po’ nel panico.

Finalmente arriva lei, ovviamente in ritardo, emergendo dal buio di un portone gigantesco che per richiudersi alle sue spalle ci mette cinque minuti. È bella, coi capelli lucenti e freddi d’inverno, i jeans stretti e una collana argentata che le attraversa le pieghe del maglione. Prima di uscire ha ricacciato a fatica l’apnea nello stomaco e ha controllato il sorriso specchiandolo nel vetro opaco dell’androne.

Si piacciono ed è evidente nel loro non guardarsi. Farfugliano cose poco sensate, un sonoro disturbato e casuale che però contiene tutta la voglia di vedersi, e il sollievo che nessuno dei due abbia rinunciato all’ultimo momento.

Si piacciono e, senza dirselo, consegnano la loro giovinezza nelle mani di questo pomeriggio prendendosi per mano.

Si piacciono e dopo minuti di camminata senza direzione, imbarazzi e tenerezze qualsiasi, puntano dritti su una panchina di piazza Donatello.

Si siedono e noi ce ne andiamo. Li lasciamo lì. Forse si baciano subito, definitivi e senza altro da aggiungere. Forse, più probabile, si baceranno tra molto tempo, quando paura e imbarazzo saranno divorate definitivamente dall’impossibilità di non farlo. Noi ce ne andiamo e li lasciamo lì, giustamente soli, prima che ogni cosa succeda: non va disturbato l’amore giovane.

Quel che conta, per noi, non è quel che succederà, ma il modo in cui si sono aspettati che sapeva di speranza, quello stringersi la mano che già era uno scegliersi e preferirsi a tutto, quel camminare e fendere e sbranare la città innamorati e forti e in due, mentre il resto del mondo è solo.

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