Romanzo in corso d’opera (cinque frammenti)

Cinque frammenti (11-29 dicembre 2009)

I

“Ero in preda all’ansia, scosso da brividi, febbricitante, miliardi di magoni piantati nello stomaco. Eppure mi sentivo vivo come non mai, terribilmente ricettivo di qualsiasi cosa mi circondasse, un’ingorda spugna asciutta affamata di attimi e di emozioni. Vivo nonostante alle spalle avessi la notte insonne più angosciante della mia esistenza. Vivo, nonostante quel senso di enorme delusione che portavo in cuore. Deluso, senza comprendere perché. E’ che ci si aspetta sempre troppo dagli altri, non riusciamo a non crearci smisurate aspettative. Ma anche la delusione era un inaspettato segno di vitalità. Lei dov’era? Non ne avevo idea né volevo cercarla: rispettavo quella sottile distanza che le sue parole sembravano aver tracciato. Ma mi dispiaceva. Quella che cominciava adesso, sarebbe stata una serata perfetta per scioglierle i capelli”

II

“Dovevo partire e mi sentivo euforico come in quelle sere da ragazzo prima delle gite. Non sapevo se il viaggio sarebbe stato lungo o breve, né che viaggio sarebbe stato. Non mi importava, in quel momento mi interessava soltanto la mia faccia contro il finestrino del treno. Partivo spesso, partivo sempre, da una vita. Eppure stavolta aveva un sapore diverso: era la vita ritrovata grazie a lei, la vita ritrovata che mi scopriva ricettivo come un gatto a qualsiasi emozione. Un amico mi aveva pugnalato alle spalle e avevo il cuore pesante. Gli amici ti deludono, mi aveva detto gente saggia poco prima, battendomi la mano sulla spalla. Non mi consolava e non volevo consolarmi: avevo bisogno di soffrire fino in fondo quel piccolo enorme dolore da niente e da tutto, avevo bisogno di sentirmi tradito e patire anche per quando ero stato io il traditore. Avevo bisogno di vivere.
Lei dov’era? Non ne avevo idea. Da qualche parte era di certo con me, nei pulviscoli infiniti della nebbia tra la terra e il cielo, da qualche parte era di certo sola, nell’oscurità primordiale delle sue viscere, e da qualche parte era di certo con altra gente e con altre storie. Ma c’era ed era viva, e non m’importava nient’altro.”

III

Alle otto di mattina San Siro era un deserto avvolto nel freddo e nel silenzio. Ero arrivato lì cosciente e desideroso di quel nulla. L’oceano di rumori persone mani e abbracci della sera prima si era dissolto nella notte, lasciandomi addosso la voglia di far urlare i miei pensieri nel vuoto. Così avevo lasciato l’albergo all’alba tuffandomi in un tram semivuoto. Eravamo soltanto io, San Siro e Wild Horse, riemerso con prepotenza da qualche angolo dei miei pensieri. Era arrivato all’improvviso, Wild Horse, avanzando a passi lenti decisi nel grigio di quella mattina livida cui volevo a tutti i costi appartenere. Non ero sorpreso, tutt’altro: era come se l’aspettassi. Avrei voluto scusarmi, dirgli perdonami se dal giorno del tuo funerale non sono più tornato a trovarti. Dirgli tutto questo e poi giustificarmi, aggiungendo a che mi serve una pietra muta se a mancarmi è la tua risata feroce, la tua insensata allegria? Ma non dicevo e non chiedevo niente. Lui però intuiva, sicuramente sapeva già quelle parole che raschiavano il fondo del mio imbarazzo e della mia commozione.
E infatti disse: “Deve andare così, vecchio. Dovete pur vivere, voialtri che restate, dovete pur dimenticare. E tu hai dimenticato. È giusto così.”
Faceva male sentire quelle cose, ma aveva ragione. Eppure non volevo rassegnarmi. “No, non è giusto e non è così…”, provai a dire.
“Hai la mia foto nel tuo portafogli, ma quello non è un ricordo, vecchio”
“Non c’è solo quella, Wild. Ci sono tante altre cose, e tu lo sai bene. Ci sono le cassette delle nostre imprese che non riesco ancora a guardare”
“Il problema è che sei fuori strada, non capisci. Non è nemmeno un anno che me ne sono andato, e la tua vita è andata nonostante tutto. So che hai sofferto, ma non è il lutto che ti impedisce di guardare quelle cassette, di dimenticarmi e ricordarmi come si deve. È il senso di colpa, la smania di perfezione che ti divora come un cancro: non sopporti i nostri litigi, non sopporti che ci siamo salutati senza chiarire, non mi perdoni di essere morto senza darti modo di perdonarci. Non mi perdoni che nelle mie ultime settimane abbia scritto a tutti tranne che a te. Ma la vita è così, vecchio, imprecisa e imperfetta. Accetta questo e vivi. Accetta questo e riguarda quelle cassette sereno e commosso. Accetta questo e dimenticami sul serio. Accetta questo e ricordami ogni tanto, come stamattina. Posso essere ancora mille storie, se lo vorrai”.
Wild Horse aveva ragione, mi aveva servito la verità su un piatto d’argento, ma nemmeno il tempo di ringraziarlo che non c’era già più. Addio, vecchio Wild, prometto che guarderò quelle cassette, prometto che ti dimenticherò. Mille storie. Da vivere e da scrivere. Mille storie di amici, pugnalate alle spalle, piccoli enormi dolori da niente e da tutto, mille storie d’amore, di schiene e di gambe e di nebbia. Avevo scritto una poesia, intanto. Una poesia che parlava di mani, delle mie mani. Le mie mani tremanti e impaurite, terrorizzate di graffiare, di non saper amare senza far male. Milano adesso prendeva a popolarsi nel brusio di una domenica mattina che prometteva freddo, forse pioggia. Tornavo verso il centro piangendo: avevo voglia di amare, nonostante e al di là di tutto.

IV

“Dovevo scrivere, assolutamente e senza pensarci più di tanto. Scrivere, scrivere e poi ancora scrivere. Scrivere per salvarmi, scrivere come unica via di scampo, scrivere come unica sopravvivenza possibile. Scrivere e scrivere di me, ancora di me, sempre di me. Scrivere di me e non per vanità, ma perché parlare sinceramente a se stessi, sviscerare le pieghe del proprio cuore devastato, frugare tra le maglie dei grovigli del proprio stomaco, vuol dire parlare al mondo intero. E conoscerlo e impararlo, questo mondo, questo oceano sterminato e spaventoso. Dovevo scrivere quindi e non chiedermi cosa. Quante cose ancora non avevo raccontato? Quanti frammenti di vita ancora giacevano negli abissi della mia memoria senza essere transitati per la sbornia perenne della mia penna? Tanti, tantissimi, infiniti. Avrei voluto raccontarli tutti, uno per uno, non tralasciare nemmeno un attimo, nemmeno un volto, nemmeno un misero dettaglio. Ma sapevo che non sarebbe mai stato possibile: troppo veloce corre la vita e troppo lento è il tempo della scrittura, ed è a questo perenne limbo, a quest’oscena terra di mezzo tra rapidità e lentezza che è inchiodata l’esistenza di uno scrittore. Avrei voluto raccontare la prima volta che vidi un morto, come mia nonna mi costrinse a baciarlo in fronte e come sulle labbra sentii un gelo che mi tenne sveglio infinite notti. Raccontare come a undici anni una ragazzina crudele umiliò il mio cuore palpitante e come poi desiderai di morire, restando sul ciglio di un burrone per ore con la voglia di buttarmi giù. E poi ancora raccontare come mi girava la testa durante quel ballo stretto tra i seni di una donna più vecchia di vent’anni, come tremarono per giorni le mie mani quando per sbaglio mi puntarono una pistola carica alla tempia, come quella mattina l’alba ci colse d’improvviso in riva al mare e la ragazza piena di lentiggini che non conoscevo mi abbracciò piangendo. E ancora il vestito azzurro che mia madre metteva sempre per scendere in spiaggia, il pazzo che m’inchiodò tutta la notte alla stazione a parlare di Battiato, Sara che mi annunciò di esser diventata donna presentandosi alla mia porta con una svolazzante gonna bianca, il leone d’oro rinvenuto per miracolo tra le macerie d’una ferrovia abbandonata, il caffè al bar di Ponte Vecchio, il pomeriggio d’inverno che incidemmo una poesia sulla pietra del lungolago, i suoi capelli lunghissimi tra le urla e i fumogeni della manifestazione, i suoi baci famelici che sapevano di morsi, Alexander Platz conquistata di notte in bicicletta, la prima volta che mi disse ‘ti amo’, i capelli rasati di Lara a terra sul pavimento, l’appartamento di Pisa in cui scesi all’inferno e toccai il paradiso. Volevo scrivere tutto questo e infinite altre cose. Dovevo allora scappare, rifugiarmi, non pensare alle mille incombenze del mio quotidiano, non pensare alla sconosciuta e alla sua bocca che mi si offrivano con devastante dolcezza. Non pensare a niente e nemmeno a lei, lei che non c’era e chissà dov’era, ombra muta nella sera, orma invisibile dei miei ultimi giorni, lei che forse l’avevo soltanto sognata. Non pensare a lei, semmai scriverla, perché scrivendola l’avrei avuta davanti, finalmente. Era questo che avevo bisogno di fare: esercitare il supremo potere della penna, materializzare davanti a me qualsiasi cosa desiderassi, dilapidare la mia tristezza e la mia gioia in mille frasi disperate, sperperare il mio cuore spezzato in litri d’inchiostro nero e alla fine annegare in un infinito che nessuno avrebbe saputo mai.”

V

Volevo vedermi e vedermi sul serio. Vedere chi ero e com’ero, quali le linee tracciate dalle mie parole e dai miei gesti, quale la mia vita, quale il mio senso nel mondo, quale il vero volto di me e del mio essere. Potevo tranquillamente frantumare e fare a pezzi tutti gli specchi di casa: non mi servivano più. Avevo lei adesso, lei che cercavo dal mio primo passo sulla terra, lei finalmente trovata. E amata. Adesso erano i suoi occhi a rivelarmi, era lei il mio specchio, e lo sarebbe stata per sempre.

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