Seneca: della virtù o del delitto

Fino a che punto la vita privata di un personaggio politico può essere oggetto di dibattito, di contestazione e di giudizio da parte dell’opinione pubblica?
Fino a che punto l’ingresso nella vita politica e l’esposizione che essa comporta rendono necessario l’annullamento della propria sfera privata?
E quanto è indispensabile l’identità tra ciò che si propone per la cittadinanza e la propria condotta esistenziale?

Quesiti attualissimi che la figura di Lucio Anneo Seneca, filosofo, intellettuale, drammaturgo, mentore, statista, tra i più potenti e influenti personaggi della Roma imperiale del I secolo dopo Cristo, pone in maniera sostanziale.

La scuola – credo giustamente – soffermandosi quasi esclusivamente sulla dimensione letteraria, ci restituisce l’immagine di Seneca “principe” dello stoicismo romano, che con le sue opere, e in particolare con quell’inarrivabile capolavoro di bellezza che sono le “Epistole a Lucilio”, ci ha lasciato un inestimabile e altissimo insegnamento sulla virtù e sulla rettitudine morale, sulla necessità della giustizia e della moderazione negli affari pubblici, sulla liberazione dalla schiavitù dei beni materiali e delle ricchezze, sulla serenità interiore.

Immagine ovviamente giusta e veritiera, ma del tutto parziale e incompleta.
Se infatti agli scritti affianchiamo, indagandola, l’esperienza biografica di Seneca, emergono contraddizioni a dir poco laceranti e irrisolte.

Anzitutto il contesto, ovvero la Roma del I secolo d.c. e la dinastia Giulio-Claudia, quegli imperatori successori di Augusto che, governando, mostrarono per la prima volta al popolo romano, abituato da secoli di repubblica a una concezione a dir poco sacrale della gestione pubblica della politica, la corruzione spesso esibita e ostentata, la quotidianità dello scandalo, il delitto e l’intrigo di corte.
Un clima fosco e torbido del “palazzo” in cui, il nostro Seneca, risulta continuamente e costantemente coinvolto.

Al centro di uno scandalo sessuale con la nipote dell’imperatore Claudio, fu condannato a morte, pena poi commutata in esilio.
Grazie alla mediazione della seconda moglie di Claudio, Agrippina, che lo voleva come educatore del figlio Nerone, rientrò a Roma, dove curò personalmente l’ascesa al potere del futuro imperatore.
Eletto Nerone al seggio imperiale, vista la giovane età dell’imperatore, Seneca esercitò assieme ad Agrippina la reggenza per cinque anni.
Cinque anni passati alla storia come quelli del “governo illuminato e moderato”, ma non certo alieno da ombre.
In particolare, le immense ricchezze personali accumulate da Seneca, in netto contrasto con quella sobrietà e quel distacco dai beni materiali predicati dal filosofo nei suoi scritti.

Poi, al momento della maggiore età di Nerone, della sua piena presa di potere e dell’inizio di una delle tirannidi più feroci della storia, il ruolo di Seneca è, di nuovo, tutt’altro che chiaro e limpido. A partire da un suo presunto coinvolgimento nel matricidio operato da Nerone verso Agrippina per finire, dopo il ritiro del filosofo a vita privata, nell’implicazione di Seneca nella congiura contro l’imperatore. Congiura sventata e che a Seneca costò la vita.

Contraddizioni che di certo non sfuggirono ai contemporanei, che più volte lo chiamarono a rispondere nel merito.
“De virtute, non de me loquor” (“parlo di virtù, non di me stesso”), la risposta di Seneca.

È così? Veramente è possibile dividere pubblico e privato ed essere, nel privato, altra cosa rispetto a quello che si dice e si predica nel pubblico?
O magari è necessario, per parlare del male e curarlo, viverlo su se stesso?
Oppure è semplicemente vero l’assunto di Pasolini secondo cui il potere è tale proprio perché unico organo capace di vivere al di sopra della legge, nella più totale anarchia?

#inostriantenati
#storieRiccardoLestini