A France’… (o dell’immortalità)

C’è qualcosa di molto simile a una poesia nella storia di Francesco Totti, una di quelle poesie he in appena due versi riescono a squarciare il cielo aprendo in un lampo d’illuminazione quell’autostrada che porta dritti all’infinito.
Un che di meravigliosamente incredibile, capace di spezzare la logica e distruggere la ragione, fuso con la più pura essenza della bellezza.

Compie oggi quarant’anni, questo ragazzo, una cifra che per qualsiasi calciatore è ben oltre le colonne d’Ercole del possibile.
Non per lui.
Come la bella Sherazade, che ne “Le Mille e una Notte” sconfigge la morte raccontando ogni notte una storia, così Totti ogni domenica sconfigge la morte dispensando l’impossibile in un rettangolo verde, sventagliando lanci che mandano in porta compagni increduli, pennellando parabole che lasciano impietriti difese e portieri.

Un paradosso vivente, un delirio filosofico incarnato: Totti, già immortale per qualsiasi calciofilo (e non solo) della terra, continua a rischiare di morire ogni domenica per rinnovare all’infinito il mito stesso dell’immortalità.
Come Ulisse, che rinuncia all’immortalità perché per sentirsi immortale deve rischiare di morire.

Ha fermato il tempo, questo ragazzo.
Un giorno, qualche anno fa, senza manco pensarci – perché nessuno, quando crea una leggenda, è in grado di pensarci – ha deciso di fermare l’orologio, di distruggere gli stessi concetti di tempo e spazio in favore di una magia sospesa e infinita.
Perché è questo, esattamente questo, che succede ogni volta che scende in campo: che siano trenta, venti o quindici minuti, i compagni si esaltano, gli avversari tremano, i tifosi impazziscono. E, soprattutto, la partita cambia. Sempre.
Una dilatazione spazio temporale assurda, inconcepibile: bastano cinque minuti, tre tocchi e spacca il campo, la squadra, il destino della partita e la storia del calcio.

Oggi, che questo genio del calcio compie quarant’anni, in molti si domandano cosa avrebbe fatto, quanto avrebbe vinto se, nel corso della sua mitologica carriera, se ne fosse andato da Roma, cedendo alle lusinghe di squadre come il Real Madrid, il Milan, l’Inter…
Domanda assurda: perché senz’altro, in quelle squadre, avrebbe vinto di più ma, semplicemente, non sarebbe stato Totti.
Totti ha rinnovato, come Faust, Dorian Gray, Sherazade e Ulisse, il mito dell’immortalità, ha sconfitto il tempo e scritto pagine d’un epica irripetibile perché è rimasto sempre alla Roma, in una coerenza inflessibile e pazzesca, impensabile di questi tempi.
Un tutt’uno con una maglia, una curva, una città.
Paradossalmente, se avesse vinto dieci scudetti e quattro Champions con il Real, non sarebbe stato nessuno. L’assenza dalle grandi platee invece, nel suo innato stoicismo romantico, nella sua ostinazione splendidamente spontanea e autentica, ne ha moltiplicato l’aura e la mitologia.

Soprattutto, una storia, tutta quanta, che ci ha svelato e continua a svelarci l’ostinata esistenza della bellezza. Anche dove non batte il sole, anche in un mondo in decadente putrefazione come quello calcistico.
Una storia rara, rarissima, di pulizia, onestà e sincerità, quella stessa disarmante sincerità di sedici anni fa, quando questo ragazzo, con la maglia azzurra addosso e un numero venti (due volte dieci) sulle spalle, si incamminò tranquillo tranquillo al dischetto del rigore di una semifinale europea dicendo, come fosse la cosa più naturale del mondo, “mo’ je fo er cucchiaio…”.

Una storia dove gli dei del pallone, per una volta, non hanno alcuna vergogna di farsi vivi.

#storieRiccardoLestini

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