Stupratore: io ti assolvo dai tuoi peccati

Più che incredibile, sembra assolutamente impossibile, eppure è così: in Italia, affinché il REATO DI STUPRO venisse considerato dal Codice Penale un reato “contro la persona” abbiamo dovuto aspettare il 1996.

Quando si dice il progresso, quando si dice le conquiste della civiltà.
Nel 1996 l’uomo andava sullo spazio da decenni, da quasi un secolo viaggiava abitualmente in aereo su voli di linea, si era reso protagonista delle scoperte e delle invenzioni più spettacolari e mirabolanti, ma ancora riteneva il reato di stupro un reato “contro la morale pubblica” e non “contro la persona”.

1996, appena vent’anni fa, un lasso di tempo minimo, ridicolo.
Un istante fa, in sostanza. Una legge molto più che recente a raccontarci come fino a un istante fa, nella nostra civilissima Italia, fosse tecnicamente impossibile, per un reato gravissimo come lo stupro, ottenere piena giustizia in tribunale.

Prima di allora – bene ripeterlo, 1996 – in materia di stupro erano rimaste sostanzialmente invariate le norme contenute nel Codice Rocco, promulgato nel ventennio fascista.
Tali norme classificavano lo stupro, come già detto, tra i reati “contro la morale pubblica”.
Lasciando stare il pensiero comune, i pregiudizi della massa verso la libera espressione della sessualità femminile, fino al 1996 era proprio la legge a certificare ufficialmente come lo stupro non andasse a offendere la persona vittima di violenza, ma che ledesse il buon costume sociale, quel pubblico pudore e pubblico decoro secondo cui la donna non poteva né doveva disporre di alcuna libertà nel campo sessuale.

La legge così come era prevedeva la distinzione tra “violenza carnale” e “atti di libidine”.
Ovvero: perché si potesse di parlare di violenza carnale, quindi di stupro vero e proprio, la Cassazione stabiliva al centimetro quanto dovesse essere profonda la penetrazione.
Solo se quindi il processo accertava una penetrazione superiore a un tot di centimetri, con annesso “versamento spermatico”, si poteva ritenere l’imputato colpevole di stupro (e quindi colpevole di un reato contro la morale pubblica). Viceversa, se la penetrazione non aveva raggiunto la profondità prevista, se non c’era stata eiaculazione interna ma “solo” altro tipo di contatto, per quanto esso potesse essere stato violento, umiliante, intimo, offensivo, molesto, completamente non consenziente, non si poteva parlare di stupro, ma di atti di libidine, per i quali erano previste sanzioni assolutamente più lievi.

Tutto questo, è bene ripeterlo e sottolinearlo, sostanzialmente invariato fino al 1996.
Accorgimenti, aggiustamenti, ma l’impianto della legge, fino al 1996, resta quello del Codice Rocco.
Ed è interessante (e ovviamente allucinante) vedere come nello stesso contesto legislativo si facesse distinzione tra il reato di “ratto a scopo di libidine” e quello di “ratto a scopo di matrimonio”, prevedendo pene più o meno severe a seconda di quale fosse lo scopo del rapimento di una donna.
Meno grave era considerato rapire una donna a fini matrimoniali, anzi: non solo si riteneva un reato “minore” il privare una donna della propria libertà e coatarne la volontà al fine di sposarla, ma addirittura tale reato veniva cancellato qualora il matrimonio venisse effettivamente celebrato (il cosiddetto “matrimonio riparatore”).
La donna quindi trattata esattamente come un oggeto.
Un oggetto che chiunque poteva prendere e rompere, purché poi si assumesse la responsabilità di raccoglierne i pezzi.
La follia del matrimonio riparatore (la donna che non solo è costretta a sposare il suo rapitore/stupratore, ma che addirittura deve ringraziarlo, visto che secondo la morale pubblica lei ormai è disonorata, merce avariata che nessuno vuole più) è stata abrogata soltanto nel 1981.
Mentre per l’abrogazione delle altre assurdità (ratto a scopo di libidine, ratto a scopo di matrimonio), occorre attendere il solito 1996.

Tristemente chiaro come il sole, praticamente ovvio e scontato come, con una cultura legislativa così recente e ancora imperfetta, balbettante, esposta a mille contraddizioni e ambiguità, il pensiero della società e della massa in materia di stupro, sia ancora più ambiguo e ancora più immobile.
E, soprattutto, ancora più inquietante.
Infatti resiste, e non accenna affatto a morire, una certa “cultura dello stupro”, secondo cui la massa, il pensiero dominante, la “vox populi”, tende – davanti a qualsiasi caso di violenza sessuale – a ridmensionare le colpe dello stupratore, a individuare una serie di attenuanti e, al tempo stesso, a mettere in dubbio la moralità della vittima.
Anche davanti alle brutalità più evidenti, c’è questa cultura dello stupro che porta la vox populi a ritenere in qualche misura la vittima responsabile, o quanto meno corresponsabile: se l’è cercata, ha provocato, non era abbastanza vestita e via dicendo.
Molti libri e saggi sull’argomento riportano l’episodio della beatificazione e santificazione di Maria Goretti (la celebre giovane che pur di non cedere alla violenza si tolse la vita morendo illibata), come un momento di svolta della percezione dello stupro nella cultura di massa, una specie di collettiva presa di coscienza dell’orrore contenuto in questo crimine. Penso al contrario che l’enfasi data alla triste vicenda della povera Goretti – tra l’altro in un periodo in cui non solo eravamo fermi al Codice Rocco, ma era fuori discussione anche solo il minimo progetto di modifica dello status quo – abbia addirittura rafforzato la cultura dello stupro: è passato infatti il messaggio, assurdo, che una “vera donna”, se davvero vuole mantenere la sua onorabilità, è disposta a sacrificare la propria vita. E, di conseguenza, se non si ammazza (o quanto meno se non “resiste abbastanza”), allora sotto sotto lo stupro era quello che voleva.

Avrei molte altre considerazioni da fare, sulla cultura dello stupro, sul pazzesco ritardo della legge, ma mi fermo qui.
Credo che non ci sia niente di meglio, per comprendere a fondo quanto questa “cultura dello stupro” sia al dentro della nostra società, così al dentro da rendere spesso completamente inutili i progressi legislativi in materia, di riportare, in una sequenza nuda e cruda, senza commento, alcune delle più assurde sentenze di assoluzione in processi più o meno recenti per violenza sessuale.
A voi questa assurda galleria degli orrori:

1.Si assolve l’imputanto perché “qualche iniziale atto di forza da parte dell’uomo, secondo una diffusa concezione, non costituisce violenza vera e propria, dato che la donna, soprattutto tra la popolazione di bassa estrazione sociale e di scarso livello culturale, vuole essere conquistata con maniere rudi, magari anche per cercarsi una sorta di alibi al cedimento ai desideri dell’uomo” (1982)

2.Si assolve l’imputato perché “E’ arduo ipotizzare una violenza sessuale fra coniugi in caso di coito orale in quanto la donna avrebbe potuto in ogni caso facilmente reagire e sottrarsi al compimento dell’atto da lei non voluto” (1994)

3.Si assolve l’imputato perché “se il capufficio dimostra un “sentimento profondo e sincero” nei confronti della segretaria, non può essere accusato di molestie sessuali sul lavoro, anche se la invita a cena e tenta di baciarla” (1997)

4.Si assolve l’imputato perché “Impossibile commettere violenza carnale su una ragazza che indossa i jeans” (1999)

5.Non si assolve, ma si attenua la pena all’imputato perché “violentare una donna incinta al settimo mese non configura una circostanza aggravante del reato di violenza sessuale. Si applica la diminuzione della pena minima per attenuanti generiche perché il caso può anche essere ritenuto tra quelli di “minore gravità”. (1999)

6.Si assolve l’imputato perché “una quattordicenne non può aver subito violenza dal proprio patrigno perché non “illibata” e perché – dato che ha avuto delle esperienze – si ritiene in grado di dominare un rapporto del genere” (2006)

7.Non si assolve ma si attenua la pena dell’imputato perché “lo stupro di una minorenne è meno grave se la ragazzina ha già avuto rapporti sessuali” (2006)

8.Un giudice – donna!! – chiede a una quattordicenne, durante un processo: “Ma almeno hai provato a serrare le gambe per impedire la violenza?” (2010)

9.Si assolve l’imputato perché “la vittima indossava gli Spanx, degli slip modellanti contenitivi, per cui si considera impossibile un rapporto sessuale non consenziente” (2013)

10.Non si assolve l’imputato ma si concedono le attenuanti perché “l’uomo esercitava violenza sulla moglie solo da ubriaco” (2014)

11.Non è possibile disporre della custodia cautelare per chi è accusato di stupro di gruppo, in quanto “Ciò che vulnera i parametri costituzionali – si legge nella sentenza n.232 – non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del ‘minore sacrificio necessario” (2009)

12.Non si assolve, ma l’imputato ha diritto a uno sconto di pena perché “durante una violenza di gruppo va dunque riconosciuto uno sconto di pena a chi non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l’atto.” (L’uomo era stato il terzo violentatore di una diciottenne. Lo stupro era avvenuto su uno yacth che si trovava nelle acque dell’isola di Panarea nelle Eolie, ma al contrario degli altri due del branco non aveva partecipato alla fase precedente, durante la quale la ragazza era stata fatta ubriacare fin quasi a perdere i sensi) (2012)

13.Si assolve l’imputato perché “siccome il presunto stupratore non ha avuto un orgasmo durante la penetrazione, non si può parlare di reato” (2012 – sentenza americana)

14.Si assolve un intero branco di sei persone perché “ la vicenda è incresciosa, “non encomiabile per nessuno”, ma “penalmente non censurabile. La ragazza con la denuncia voleva rimuovere quello che considerava un suo discutibile momento di debolezza e fragilità, sottolineato oltre che dall’ubriachezza anche dall’abbigliamento” (si parla espressamente, nelle motivazioni dell’assoluzione, delle MUTANDINE ROSSE indossate dalla ragazza come indizio della sua intenzione di provocare) (2015)
#resistenzeRiccardoLestini

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