Lo stile di Bersani e il PD che non c’è più

Se fosse diventato Premier, più o meno un anno fa, Bersani non avrebbe cambiato l’Italia e non avrebbe fatto miracoli.
Eppure io, che sono irriducibilmente di sinistra (molto di sinistra, e quindi da sempre distante anni luce dal PD e ferocemente polemico con quel partito), alle ultime elezioni ho scelto di votare, senza nemmeno sforzarmi o turarmi il naso, la coalizione guidata da Pierluigi Bersani, quella coalizione che ha raccolto una delle vittorie di Pirro più clamorose della storia della Repubblica, per finire poi di suicidarsi con l’allucinante e vergognosa elezione del Capo dello Stato.
Lasciando (a fatica) stare lo scandalo di quella sanguinosa e spietata lotta interna, degna della peggiore cosca mafiosa, il PD, pur nascendo da sinistra non è mai stato, sin dal suo atto di nascita e dalla primissima segreteria Veltroni, un partito di sinistra nel senso più vero e compiuto del termine. Era un partito che però guardava a sinistra, con l’intento di creare un’alternativa d’ispirazione socialdemocratica al centrodestra berlusconiano.
Un’impronta, un’impostazione che l’ex segretario Pierluigi Bersani incarnava in pieno.
Quel che è successo dopo è storia arcinota: Bersani pugnalato, il governo Letta, l’avvento di Renzi e la definitiva trasformazione del PD in una forza liberista e leaderista.
Venerdì scorso, dopo molti mesi, Bersani è tornato a parlare in pubblico. L’occasione, la Festa de l’Unità nazionale.
Parole, queste ultime, che ribadiscono ulteriormente ciò che il PD (e il governo) poteva essere e non è mai stato, e ciò che invece si è voluto che fosse.

Proprio sul governo, e su Matteo Renzi, le prime parole: “Bisogna evitare un effetto disillusione. Bisogna accorciare la forbice tra attese e realtà”.
Solito stile bersaniano, semplice, diretto, senza troppi fronzoli. Eppure, in quella semplicità, un oceano di sottotesti. Un attacco duro e preciso contro quella politica spettacolo e sensazionalista, fatta di annunci clamorosi sempre più simili a spot pubblicitari, che il PD avrebbe dovuto combattere e proporsi come alternativa, e che invece, con Renzi, ha finito per sposare in toto.

Per ribadire ulteriormente il concetto, precisa: “Ho un difetto, non so dire che gli asini volano. Riconosco in Renzi l’ottimismo. Però gli consiglio di mettere in equilibrio ottimismo e realtà, perché per far ripartire il Paese c’è bisogno di fiducia e la fiducia viene dalla verità”.
Ripetiamo: se Bersani fosse diventato Premier non avrebbe cambiato l’Italia, non avrebbe fatto miracoli. Ma non li avrebbe nemmeno annunciati, i miracoli. Sicuramente, non avrebbe sbandierato l’avvento dell’impossibile.

“Se fossi diventato Premier, avrei lasciato la guida del PD”, prosegue Bersani. Quando il segretario del partito è anche capo del governo “il dibattito viene inibito, perché si scaricherebbe sul governo, che non è del PD, ma del Paese”.
Demarcazione cruciale sulle differenze di stile e di approccio. Polemica contro una gestione del potere personalistica, verticistica e accentratrice. Il principio meravigliosamente democratico di un governo che appartiene solo al paese contro quello autoritario di un governo detenuto esclusivamente da chi comanda.

Ma la stoccata più forte a Renzi è questa: “io sono per l’umiltà, perché nessuno nasce imparato e bisogna ascoltare anche le idee dei soggetti sociali”.
Umiltà che diventa sinonimo di concertazione e contrario di presunzione.
Il noi al posto dell‘io.

Parole importanti, quelle di Bersani, ma con il sapore di un amaro anacronismo. Non nel senso di inattualità delle idee e delle proposte, ma in quello di inattuabilità, perché quel PD, socialdemocratico e pluralista, che forse è esistito solo nella testa di Bersani, non c’è più e non potrà mai più essere.
Oggi è altro. Oggi è il partito di Renzi. E non pare esserci punto di ritorno. Ed è su questa mutazione irreversibile che, credo, dovrebbero iniziare a interrogarsi seriamente i militanti.

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