Scrivere è una questione di vita o di morte

Parliamo di quel cazzutissimo scrittore, poeta e saggista che fu Raymond Carver (1938-1988).
Come a gran parte dei numeri uno accade, in vita i suoi scritti non ebbero la fortuna che meritavano. Così la sua carriera di scrittore ebbe più saliscendi d’una montagna russa, alternando improvvisi e brevissimi successi a lunghi momenti d’oblio assoluto.
E vuoi la continua precareità finanziaria (Carver esercitò soprattutto la professione d’insegnante, ma in determinati momenti fece i mestieri più disparati per racimolare due soldi), vuoi la depressione e l’alcolismo, vuoi un’interminabile crisi coniugale e vuoi soprattutto che Carver appartiene a quel gruppetto di artisti che parlano non quando vogliono dire qualcosa ma quando hanno qualcosa da dire, il nostro super scrittore trascorse anche lunghissimi periodi senza scrivere manco una riga che fosse una.
Com’è come non è i riconoscimenti, quelli veri, quelli che ammettono sì, orca trota, Carver è stato uno dei più grandi narratori del ‘900, di quelli che ne nascon due ogni cinquant’anni per capirci, arrivano tutti post mortem.
Da noi in Italia, per vedere la pubblicazione più o meno sistematica e completa dei suoi scritti, ci tocca addirittura aspettare fine secolo, 1999 o giù di lì, il tutto grazie a una casa editrice coraggiosa e donchisciottesca come la Minimum Fax, che ha fatto di Carver uno dei suoi cavalli di battaglia.
Ad ogni modo, nonostante la Minimum Fax, nonostante i libri più celebri del nostro Raymond li abbia pure ristampati Einaudi nelle edizioni de luxe con tanto di copertina rigida (che non serve a un cazzo, ma fa tanto Einaudi e quindi costa di più), ancora oggi qui da noi, sempre in Italia, non è che Carver vada poi tanto per la maggiore.
Il motivo, esimi lettori, credo sia perché Carver in tutta la sua vita non ha mai scritto un romanzo che sia uno. Solo racconti brevi, o novelle, o shorts stories che dir si voglia. Poi poesie che sembrano novelle pure quelle e saggi sul mestiere di scrivere. Ma romanzi no, mai.
E se nel continente americano, dagli States fino ad arrivare giù giù nella Terra del Fuoco, la narrativa breve si legge tantissimo e piace da matti, in Europa e soprattutto in Italia no, manco per sogno, non si legge e non piace. E di conseguenza non vende e non si pubblica.
Il motivo di questa disaffezione e di questo sospetto verso il racconto breve mica l’ho mai capita, che a me le short stories garbano da impazzire, leggerle e scriverle.
Anche perché se uno sa scrivere da dio lo vedi nei racconti brevi, mica nei romanzi. Nei romanzi tra digressioni, pause e saliscendi puoi pure barare, nei racconti no, che lì ti tocca concentrare tutto in uno spazio piccolissimo, e per farlo bene devi per forza essere un mostro di bravura.
Prendete, che ne so, Poe, Marquez, Hemingway, i nostri Buzzati, Calvino, Pirandello. I capolavori di perfezione stilistica di tutti sti mostri qua son le novelle, mica i romanzi.
E tornando a Carver, che se no ci si dilunga e si perde il bandolo della matassa (erano sei anni minimo che volevo scrivere bandolo della matassa e finalmente ce l’ho fatta e son proprio felice), diciamo senza esagerazione che ci troviamo davanti uno dei più grandi e straordinari scrittori di racconti brevi che la storia della letteratura mondiale d’ogni tempo e spazio abbia mai conosciuto.
Mi piace il salto rapido di un buon racconto, l’emozione che spesso comincia già dalla prima frase, il senso di bellezza e mistero che si riscontra negli esemplari migliori: e il fatto che un racconto può essere scritto e letto in una sola seduta (Caver, prefazione a “Da dove sto chiamando?”)
Non aspettatevi però, se non lo conoscete e decidete di leggerlo, cose troppo complesse, tipo l’accavallarsi di intrecci e situazioni. No, a Carver ste robe qua non piacevano per nulla, per questo non gli venne manco mai in testa l’idea di mettersi a scrivere un romanzo.
I suoi personaggi sono umili, spesso disperati e incapaci di gridarla, sta disperazione, alle prese con la piccola grande tragedia quotidiana della sopravvivenza, sullo sfondo asfissiante della provincia americana.
Le situazioni e le vicende sono semplici, banali, quasi immobili.
In sostanza, nei racconti di Carver non succede quasi mai niente. Ma è proprio nella materializzazione di questo niente che sta la grandezza immensa di questo scrittore.
Carver, con la sua lingua così lineare e comune, la vera lingua della gente comune, ci restituisce come nessuno il niente assurdo, ma reale e per questo sconvolgente, della quotidianità di ognuno di noi. Come nessuno riesce a scavare e a indagare tra le coltri del grigiore della vita di tutti i giorni.
Se siamo fortunati, non importa se lettori o scrittori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto e letto, magari la nostra mente e il nostro cuore avranno fatto un piccolo passo avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, e “creatura di sangue caldo e nervi”, come dice un personaggio di Checov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita. (Carver, prefazione a “Da dove sto chiamando?”)
E il miracolo della narrativa di Carver è proprio questo: parlare di tutto e far accadere tutto parlando di niente e senza che niente sia accaduto.
Come nel racconto Il bagno, dove un bambino viene investito il giorno del suo compleanno, e non ci sono strepiti né apocalissi, solo l’assurda normalità d’una tragedia di provincia, con i genitori che lo portano all’ospedale senza sapere com’è che andrà a finire, poi tornano a casa angosciati e preoccupati e si dicono quelle cose che ci diciamo quando non sappiamo che dire, a turno fanno un bagno e mentre il padre sta nella vasca squilla il telefono, la madre risponde e dall’ospedale le dicono qualcosa del bambino, ma non si sa cosa, e il racconto finisce così, sospeso e rarefatto com’era iniziato, come sospesa e rarefatta è la vita della gente comune.
Parlare di tutto parlando di niente.
Quello che dovrebbe imparare ogni artista che ha la pretesa di dirsi tale e quello che Carver sapeva fare divinamente.
Ché ci son due tipologie di scrittori. Quelli che scrivono per divertimento, e solitamente mi interessano pochino. E quelli che scrivono per necessità, e in genere mi piacciono da impazzire. Perché quando uno scrive per necessità è per forza vero, sincero, sanguigno nel suo essere tutto senza essere niente.
E leggere Carver, uno tra gli scrittori più veri e sinceri della storia, vuol dire capire come scrivere, scrivere veramente, sia sostanzialmente una questione di vita e di morte.
E hai ottenuto quel che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E cos’è che volevi?
Sentirmi chiamare amore, sentirmi amato sulla terra.
(Carver, “Orientarsi con le stelle”)
Le sue raccolte di racconti sono svariate, tutte pubblicate dalla Minimum Fax, ma quelle edizioni là oggi non si trovano più, che l’ha ristampato Einaudi a prezzo maggiorato per via della copertina rigida di cui sopra (stronzi…).
Ve li consiglio tutti-ma-proprio-tutti, ma se proprio devo restringere il campo ne scelgo due: la raccolta Da dove sto chiamando?, che un’antologia “all the best” curata dallo stesso Carver in punto di morte (costa 25 euro, ma secondo me se la cercate in Internet la trovate a meno), e poi Cattedrale, che è la raccolta più famosa, che porta il nome di quella che è la sua novella più celebre, dove un cieco vuol capire com’è che sia fatta una cattedrale.
Poi il resto non ve lo dico.
Leggetelo. Innamoratevene.
Ne vale la pena. Ma ne vale davvero parecchio.
Una questione di vita o di morte, insomma.

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