Quando Pasolini andava a caccia di nuvole

oggi ci è presa voglia di fare un gran balzo all’indietro nel tempo e discorrere nientepopodimenoche di Pier Paolo Pasolini.
Un uomo talmente gigantesco che si fa quasi fatica a parlarne, tanto è importante. Ma noi ci si prova lo stesso, poi ci direte voi, che qui nel lestobunker Pasolini è una specie di totem, il faro di ogni nostra notte, lo squarcio di luce che ci illumina ogni santa mattina. E siamo davvero convinti che, come disse al tempo Moravia, tra tutto il pandemonio del secolo scorso Pasolini sia tra i pochissimi che contino davvero qualcosa.
Noi però oggi non vi si starà a parlare in generale del cinema di Pier Paolo, che questo è un semplice post d’un blog scritto a centinaia e centinaia di chilometri sottoterra, non abbiamo a disposizione trecento pagine e nemmeno vent’anni per compiere uno studio approfondito e degno di questo nome. E manco di un film, vi si parlerà. No, noi oggi si ha voglia di ragionare di un’opera piccolissima e immensa. Un cortometraggio, diremmo oggi. Venti minuti o poco più di pellicola.
Un gioiello datato 1967 intitolato Che cosa sono le nuvole?
Orbene, si proceda con ordine e con un minimo di criterio.
Nel 1964 Pasolini aveva girato il suo terzo lungometraggio, il colossale e monumentale e chi più ne ha più ne metta Il Vangelo secondo Matteo, che veniva dopo i due altrettanto giganteschi film sul sottoproletariato romano Accattone e Mamma Roma. Nel mezzo, pure un cortometraggio meraviglioso, La ricotta, sempre dedicato al mondo infernale e purissimo del sottoproletariato.
Ma l’avanzare degli anni ’60, il boom economico, il trionfo definitivo della società dei consumi, spazzavano via con una rapidità pazzesca e impensabile ogni residuo del mondo arcaico, compreso quello “disperatamente amato” dallo scrittore friulano delle borgate romane.
Sgomento e angosciato per l’avanzar funesto del nuovo mondo cannibale e spietato, Pasolini comincia a volgere lo sguardo altrove, a ricercare quella purezza perduta in mondi e scenari più arcaici.
Anche (soprattutto?) per questo nel 1964 gira Il Vangelo, come se nella Palestina dell’anno zero e nel mondo degli ultimi difeso da Cristo rivedesse e ritrovasse quella purezza arcaica perduta. Più avanti, negli anni, Pasolini andrà ancor più a ritroso, ricercando quella stessa purezza nel mondo preistorico e primordiale del mito greco, girando film come Edipo Re e Medea.
Ma nel mezzo, tra il mito cristiano e il mito pagano, Pasolini cerca la “fuga” in un’altra dimensione ancora.
Una specie di surreale, elegiaca e tragica comicità.
Regista soprattutto di volti, oltreché di ideologie e contenuti, è proprio una maschera a far scattare e vibrare questa molla nell’immaginario di Pasolini: la maschera clownesca e struggente di Totò.
Come spalla (perché come la commedia dell’arte – cui Totò appartiene a pieno titolo – ci insegna, la comicità viaggia in coppia), Pasolini costruisce per Totò un compare improbabile e sorprendente, Ninetto Davoli, un pischello di borgata di appena sedici anni impertinente e riccioluto.
Il principe Totò e il ragazzetto borgataro: una coppia che solo un genio come Pasolini poteva anche solo pensare. Il risultato è un altro assoluto capolavoro: Uccellacci e uccellini.
Questo pazzesco assortimento, l’immensità di Totò e l’eterea spontaneità di Ninetto, scatena l’immaginario fantastico di Pasolini come nient’altro nella vita, e attorno a loro due fioriscono progetti a non finire, che solo l’improvvisa scomparsa di Totò impedisce di realizzare.
Oltre Uccellacci e uccellini si concretizzano così solo altre due piccole gemme, due cortometraggi: La terra vista dalla luna e, appunto, Che cosa sono le nuvole?
All’epoca, anni ’60, andavano di moda i film a episodi.
Funzionava così. Un produttore, per fare cassetta, si inventava dal nulla un film sfruttando uno o più attori in voga al momento. Chiamava quattro o cinque sceneggiatori e altrettanti registi e a ognuno commissionava un breve episodio (venti minuti o poco più), con l’unico paletto che avessero al centro quello o quell’altro attore. Si girava di fretta, poco più d’un mese di riprese e il film era bell’e pronto.
Nati col solo scopo di battere cassa, sti film qua 99 volte su 100 nella peggiore delle ipotesi son brutti che più brutti non si può, nella migliore, inutili, assolutamente inutili.
Capriccio all’italiana, nato per sfruttare Totò e il duo Ciccio&Franco, non fa eccezione, nel senso che pure questo è inutile e bruttarello.
Inutile e bruttarello tranne che per venti minuti, quei venti minuti cioè in cui improvviso e fatale come un bianchissimo fior di loto, appare sullo schermo sto pazzesco e insuperabile squarcio di poesia che è Che cosa sono le nuvole?
Dopo l’iniziale inquadratura dello splendido quadro Las Meninas di Velazquez, la macchina da presa ci porta dentro uno scalcinato teatrino di periferia, nudo e spoglio, dove delle marionette di dimensioni umane, manovrate da un burattinaio/narratore, recitano una versione scollacciata e picaresca dell’Otello di Shakespeare, mentre due grigi mandolinisti a bordo palco dettano il sottofondo musicale.
Otello è Ninetto, e parla romanesco, Desdemona è Laura Betti, mai così dolce e mai così bambola, Franco Franchi è un candido e inconsapevole Cassio, Adriana Asti è un’innocentissima Bianca, Ciccio Ingrassia un allucinato Roderigo. E Totò, il grande Totò, qui all’ultima rappresentazione prima di uscire per sempre di scena, è un inquietante e funereo Jago col volto truccato di verde.
L’espediente della “rappresentazione nella rappresentazione”, permette a Pasolini di regalarci un intenso, meraviglioso e brevissimo apologo sull’esistenza umana, concentrando con la più grande e tragica naturalezza domande e riflessioni immense ed eterne.
La contentezza immotivata dell’essere al mondo nel puro mistero della nascita (“perché so’ così contento?”, chiede Otello/Ninetto appena ‘fabbricato’ dal marionettista, “perché sei nato”, risponde Topazia, “e che vor di’?”, insiste Ninetto, “vuol dire che ci sei”, conclude Totò/Jago), l’essere marionette, prigionieri di un ruolo imposto non si sa da chi, ma dal quale non riusciamo a liberarci fino a perdere la nostra stessa natura, la frattura insanabile tra apparire ed essere.
Dietro le quinte, in una pausa del dramma, Ninetto/Jago proverà a ribellarsi al ruolo che gli viene imposto di recitare. “Perché so così stupido? Perché devo crede alle cose che me dice Jago, perché?”, chiede con rabbia al marionettista. “Forse perché sei tu che vuoi ammazzare Desdemona”, risponde il marionettista senza scomporsi. “Io voglio ammazza’ Desdemona? E perché?”, chiede ancora Ninetto. “Forse perché a Desdemona piace essere ammazzata”, replica di nuovo il marionettista.
“Ma allora qual è la verità?”, continua a chiedersi Ninetto, “Quello che penso io de me, quello che pensa la ggente, o (indicando il marionettista) quello che pensa quello là dentro?”.
A rispondere stavolta è Totò/Jago: “La senti una voce dentro di te? Ecco, quella è la verità. Ma… ssst! Non bisogna nominarla, perché appena la nomini, non c’è più”.
L’ineffabilità della verità, l’impossibilità di coglierla se non in brevissimi silenzi, la natura puramente illusoria dell’esistenza (“Perché dovemo esse così diversi da come se credemo, perché?”, chiede disperato Ninetto. “Eh, figlio mio… noi siamo in un sogno dentro un sogno”, risponde Totò).
Tuttavia, il dramma non si concluderà come previsto dal copione.
Otello non riuscirà a uccidere Desdemona, il pubblico rumoroso e indignato si ribellerà e salendo sul palco salverà la donna e ucciderà brutalmente Jago e Otello.
Gettate nei cassonetti della spazzatura, le due marionette vengono raccolte dall’immonnezzaro, quello che “viene, prende i morti e se ne va”, una specie di malinconico Caronte interpretato da Domenico Modugno, che mentre raccoglie i due cadaveri canta una struggente e straziante canzone d’amore scritta dallo stesso Pasolini.
Morti, diventiamo monnezza da gettar via.
Eppure, inaspettatamente, nella discarica in cui vengono abbandonate, anziché l’inferno le due marionette trovano finalmente il paradiso.
Dopo una vita passata chiusi nel buio del teatrino scalcinato, scoprono per la prima volta il miracolo delle nuvole, quella “straziante meravigliosa bellezza del creato”, come commenta Totò sospirando e contemplandole.
Perché la bellezza è un lampo, uno squarcio che resiste nella discarica della vita e della morte, nella discarica che è diventato il mondo. Un bagliore splendido da cercare e difendere.
Pasolini per dircelo è andato a caccia di nuvole e ci ha restituito tutto questo.
Qui sotto non vi linkiamo una scena del film, ma il corto intero.
Guardatelo, dura appena venti minuti.
Ed è importante, ogni tanto, fermare l’insensato girotondo e dedicare venti minuti alla difesa della bellezza.
Dedicare venti minuti alla caccia delle nuvole.
Fa bene al corpo e allo spirito. E al cuore. Soprattutto, al cuore.

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