C’era una volta Dylan Dog

Così alla fine è successo davvero, i mesi e gli anni sono passati e il gran giorno è arrivato.
Ché poi magari, abituati come siamo a vivere in un mondo in cui passiamo più tempo a celebrare e commemorare che a vivere, un trentennale può sembrare una cosa da niente, o quanto meno una cosa come un’altra. Un semplice passaggio di tempo, semplicemente più rotondo degli altri. Niente di più e niente di meno.

Non in questo caso e di sicuro non per me, che in quel remoto settembre 1986 (dieci anni ancora da compiere e quinta elementare appena iniziata) più o meno per caso mi ritrovai ad acquistare il numero 1 fresco fresco di stampa (quella “Alba dei morti viventi” che sarebbe diventato, in capo a pochi anni, assai più che leggendario) di un fumetto ancora sconosciuto di nome Dylan Dog, e che oggi, settembre 2016 (quarant’anni ancora da compiere e ancora a scuola, ma in veste di prof) assolutamente non per caso andrò in edicola per comprare il numero 361 (questa “Mater dolorosa” annunciata in pompa magna da mesi e mesi) sempre di quel Dylan Dog che, nel frattempo, è forse diventato il fumetto più celebre (e celebrato) della storia più recente d’Italia.

E di sicuro Dylan Dog (Dyd per gli amici) è stato – ed è ancora – molto più di un fumetto.
Non solo per me, che sono stato e sono ancora un collezionista accanito, che ho messo in fila in trent’anni tutti e 360 numeri più gli speciali e qualsiasi altra pubblicazione fuoriserie.
Dico proprio per la mia generazione (e forse pure per quella precedente e senz’altro per quelle successive), della quale Dyd è stato uno dei simboli indiscussi, una delle poche icone imprescindibili (assieme ai Nirvana e poca altra roba) di quegli anni ’90 che hanno incendiato la nostra adolescenza.

Partito – come quasi tutti i fumetti – come fenomeno di nicchia, sopravvissuto alla prima grande crisi dell’editoria nazionale grazie a un manipolo ristretto, ma comunque ben nutrito, di fanatici irriducibili (tra cui il sottoscritto), all’inizio dei ’90 è improvvisamente esploso come fenomeno di costume e nazionalpopolare, quintuplicando le vendite, battendo ogni record possibile per il mondo delle nuvole parlanti, rendendo necessarie ben due ristampe nell’arco di appena dodici mesi, imponendosi nell’immaginario collettivo, entrando di diritto nel frasario giovanile e non solo (i vari “cari amebe” con cui la redazione apostrofava i lettori, l’ormai mitologica imprecazione di Dyd “Giuda ballerino!”), aprendo linee di merchandising a ripetizione da far quasi concorrenza alla Disney.

All’epoca, del fenomeno Dyd, se ne occuparono molte firme illustri, da Achille Bonito Oliva a Umberto Eco. Furono scritti saggi, tenuti seminari e corsi di sociologia e comunicazione per spiegare, o almeno tentare di farlo, le ragioni di un successo così clamoroso.
Io, da fan della prima ora, per Dylan Dog non riesco a fare discorsi scientifici, ma solo restare sul piano dell’istinto e delle più pure emozioni.
Per questo l’unica cosa che mi viene in mente, come risposta al perché del successo di Dyd, è che si tratta di un fumetto bello, bellissimo.
Che il successo sta, prima di ogni altra cosa, nel genio autentico di Tiziano Sclavi (autore tragicamente sottovalutato, che oltre a Dyd ha scritto una serie di romanzi notevoli, horror e no, stupidamente snobbati dalla critica), che affiancato da un gruppo di grandi disegnatori (Angelo Stano, Corrado Roi, Bruno Brindisi e Giampiero Casertano su tutti), ha saputo trovare il punto d’incontro preciso tra fumetto d’autore e fumetto popolare (un equilibrio che in Italia, per qualsiasi settore artistico, è sempre più utopia), unendo una qualità altissima (alcuni numeri di Dyd sono davvero pura letteratura) a una altrettanto altissima fruibilità, andando oltre gli stereotipi più triti del genere (come minimo riduttivo, parlare di Dyd solo come di un fumetto horror) usando sapientemente le più disparate citazioni in un impasto sincero, non calcolato e praticamente perfetto.

Soprattutto, anche nel terreno del fantastico più ardito, dell’impossibile puro, le avventure di Dyd riescono a conservare un’umanità potentissima e commovente. Una specie di strambo realismo magico che ci fa sognare e immedesimare nello spazio di un niente, che pur parlando di zombie, vampiri, licantropi e case infestate, resta attaccato alla realtà più vera, toccando continuamente temi delicatissimi (via via Dyd si è occupato di vivisezione, neonazisti, abbandono degli animali, corruzione della politica, censura, razzismo, emarginazione… ) con intelligenza e profondità.
E con un messaggio di fondo splendido: c’è umanità anche nei mostri, che spesso li vediamo come mostri solo perché diversi. E di sicuro sono più umani vampiri e licantropi di coloro che ci governano, più umani gli zombie degli squali delle multinazionali.

Niente di più umano e vero di questo eterno ragazzo, perennemente trentacinquenne, che vive a Londra in Craven Road numero 7, fa il mestiere più strambo del mondo, l’indagatore dell’incubo, è un ex poliziotto, ex alcolista, vegetariano, si innamora e fa innamorare ogni mese, vive con il sosia di Groucho Marx, suona il clarinetto e, pur facendo il lavoro che fa, non crede nel soprannaturale.
Niente di più umano e antieroico di questo eroe di carta chiamato Dylan Dog, dal passato oscuro (forse è nato nel 1686 e ha fatto un salto di 300 anni attraversando assieme al padre alchimista un varco temporale), che si ostina nella costruzione del modellino di un galeone che non riesce a finire, ama i vinili e ha come amico e padre adottivo l’ispettore Bloch di Scotland Yard.

Alcune storie della serie, si diceva prima, sono puri gioielli letterari.
Penso per esempio allo struggente “Finché morte non vi separi” (numero 121, che ci rivela molte cose della giovinezza di Dyd, tra cui il folle amore per Lillie, una terrorista dell’Ira), al leggendario numero 1 “L’alba dei morti viventi” e al visionario “Morgana” (numero 25), a quella poesia immensa sull’emarginazione che è “Johnny Freak” (numero 81), ai coraggiosi albi di denuncia come “I Vampiri” (numero 62) e “Caccia alle streghe” (numero 69). Ma ce ne sarebbero troppi, e allora fra tutti ne scelgo uno: il numero 19, quel “Memorie dall’invisibile” di cui ogni anno ne ordino alla Bonelli qualche decina di copie da dare ai miei studenti, un albo che come poche altre opere contemporanee riesce a raccontare la follia e la solitudine dei nostri tempi.

Con il tempo poi, ovviamente, Dyd è cambiato.
Anzitutto Sclavi (purtroppo più per motivi di salute che per una reale scelta), che ha progressivamente centellinato le sue storie fino a sparire del tutto dagli autori della sua creatura. Un vuoto incolmabile che ha generato un periodo di alti e bassi, ma poi ha fatto venir fuori una nuova schiera di grandi sceneggiatori (tra tutti, Paola Barbato, che meglio di chiunque altro ha proseguito l’opera di Sclavi).
Oggi, citando le parole dell’attuale curatore, ovvero quel Roberto Recchioni che da due anni è diventato l’autore principale della serie, Dyd “è nella sua fase 2.0”. Per motivi di rilancio, e per evitare una serialità troppo ripetitiva, dopo 28 anni sono state apportate delle modifiche essenziali rivoluzionando l’essenza del personaggio: l’ispettore Bloch è andato in pensione sparendo di fatto dalla serie, è stato sostituito dall’ispettore Carpenter con cui Dyd ha tutt’altro che un buon rapporto, Dyd si è dovuto dotare di un cellulare e di un computer vincendo la sua ostilità verso la tecnologia, non è più utilizzato, né menzionato, né evocato, il personaggio di Xabaras (e quindi anche quello di Morgana, e tutto il passato di Dylan che questi personaggi comportano)…
Modifiche che non ci sono piaciute granché. In generale questa fase 2.0 non ci ha entusiasmato (e parlo di me e di molti dei vecchi lettori con cui ho avuto modo di scambiare opinioni).

Certo, non per questo abbiamo smesso di comprarlo e seguirlo.
Mica siamo matti: oggi esce, tutto a colori, il numero 361 che celebra il trentennale e il mese prossimo, dopo oltre nove anni, ritornerà una storia scritta da Sclavi (e pare ce ne sarà anche un’altra a strettissimo giro). Un ritorno che Recchioni ha definito “la fase 3.0”.
Noi non vediamo l’ora. Del numero 361, del ritorno di Sclavi e di tutto il resto.
Perché Dyd è così: al di là dei momenti così così, delle storie così così, dei periodi di alti e bassi, resta sempre un’emozione.
L’emozione di aspettare il 29 del mese per comprare il nuovo numero e chiedersi, oggi come trent’anni fa, che diavolo si saranno inventati stavolta.

E l’emozione, oggi, di ripensare a quel bambino che si era fissato con l’horror, che leggeva libri horror, guardava film horror (di nascosto) e terrorizzava gli amici raccontandogli storielle horror.
Quel bambino che quel giorno, settembre 1986, dieci anni ancora da compiere e quinta elementare appena iniziato, entrò in edicola e chiese “di horror che c’è?”, e l’edicolante, porgendogli il numero uno di Dyd fresco fresco di stampa, rispose “guarda un po’ questo…”.

L’emozione di pensare che, per fortuna, comunque e tuttavia, quel bambino, ancora mi somiglia molto più di quanto pensi.

Buon trentesimo Dyd!

#storieRiccardoLestini

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