Moro e Pasolini

La prima volta che ho visto questa foto è stato il giorno del mio diciannovesimo compleanno.
La mia fidanzata di allora mi aveva regalato una splendida biografia fotografica di Pier Paolo Pasolini (di cui già allora consumavo libri e film dalla mattina alla sera), edita da Gribaudo e curata dal Fondo Pasolini in occasione del ventennale della scomparsa del grande intellettuale. Un libro davvero prezioso, che ancora oggi mi trovo a sfogliare e consultare in continuazione.
Un paio di mesi prima, avevo visto al cinema del mio piccolo paese (che, eroicamente, il giovedì sera proponeva cinema d’autore) “Pasolini, un delitto italiano”, di Marco Tullio Giordana. Eravamo in tutto, escluso il personale del cinema, sette spettatori paganti. Visto che di lì a pochi giorni mi sarei trasferito a Firenze, lo presi come un invito a levare le tende. A parte tutto, per me fu molto importante quel film. Fino ad allora mi ero interessato “solo” delle opere di Pasolini, ma da lì in poi presi a documentarmi, in maniera quasi ossessiva, sulla sua esperienza umana e, soprattutto, sul suo macabro assassinio. Un lavoro che continua ancora oggi, oltre vent’anni dopo.
Ma quel film ebbe anche il merito di farmi scoprire la figura di Marco Tullio Giordana, un grande regista che di lì in avanti avrei sempre amato e seguito con grande attenzione. In poco tempo, grazie a una poderosa videoteca fiorentina (che esiste ancora oggi, la trovate dietro Piazza dell’Unità, a due passi da Santa Maria Novella, e vi assicuro che non esiste al mondo videoteca più fornita di quella), mi vidi tutta la sua filmografia. In particolare mi colpì la sua opera prima, “Maledetti vi amerò”, datata 1980, un cupo dramma esistenziale sui fallimenti di una generazione. In un passaggio di questo film le immagini dei corpi senza vita di Pasolini e di Aldo Moro vengono montate in parallelo, associate in un’unica sequenza. E uno dei protagonisti, parlandone, mette in relazione i due delitti definendoli “omicidi contro l’intelligenza”.
Pensai subito alla foto vista in quel libro che mi era stato appena regalato. Finito il film ripresi il libro in mano e fissai a lungo quella foto: Moro e Pasolini uno accanto all’altro, alla prima de “Mamma Roma”, anno 1962, mostra del cinema di Venezia. Nel volto scavato di Pasolini è fin troppo facile cogliere la tensione del debutto del suo film, l’espressione di Moro è invece distesa e curiosa al tempo stesso. Di quel momento esiste anche un secondo scatto, meno famoso, che avrei avuto modo di vedere solo diversi anni dopo, in una mostra a Roma alle Scuderie del Quirinale: i due si stanno evidentemente parlando, o meglio è Moro che parla, forse del film o di chissà cosa, e Pasolini ascolta, colto di tre quarti, il volto attento e ancora non completamente sciolto dalla tensione del primo scatto.
Sono scatti che raccontano un momento qualsiasi di due personaggi dalla vita pubblica continua e intensissima. Nessun momento storico, niente di clamoroso. Eppure è una foto che colpisce, che non lascia indifferenti. Perché c’è dentro qualcosa di potente, una forza invisibile e inquietante che attrae e spinge a riflettere.
Lì per lì, nelle connessioni, non andai oltre gli assassinii “contro l’intelligenza” suggeriti dal film di Giordana. Solo molti anni dopo, quando anche il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, e più in generale l’intera storia d’Italia degli anni ’60-’70, sarebbero diventate altre mie ossessioni e miei continui oggetti di studio, sarei tornato a mettere in relazione i due personaggi.
Qualche mese fa, scartabellando nell’archivio de “la Repubblica”, ho pescato un articolo (datato 20 febbraio 1993) in cui viene annunciato l’inizio della lavorazione di “Pasolini, un delitto italiano”. Giordana, intervistato, ricorda proprio il suo film d’esordio, quel “Maledetti vi amerò” in cui, se pur indirettamente, aveva già parlato di Pasolini. E racconta come quell’accostamento tra il delitto Moro e il delitto Pasolini fosse stato pesantemente criticato per aver correlato due figure così diverse e due omicidi di segno opposto.
Ma è una distanza, una diversità, quella tra Moro e Pasolini, enorme e inconciliabile solo in apparenza. Perché a ben guardare, a scavare in profondità, il destino di questi due giganti ha molte più similitudini e punti d’incontro di quanto chiunque possa immaginare.
È prima di tutto la loro stessa diversità a essere un incrocio. Il politico cattolico più aperto a sinistra e l’intellettuale ateo e marxista più intriso di spiritualità e cattolicesimo (non a caso proprio il “Vangelo secondo Matteo” è il suo massimo capolavoro). E, in virtù di questo, entrambi incarnazione di colossali “eresie” per le rispettive aree di appartenenza: Moro inviso all’ortodossia democraticocristiana e all’americanismo atlantico, Pasolini in continua polemica tanto con il PCI (da cui venne espulso in giovanissima età per “indegnità morale”) quanto con la sinistra extraparlamentare (il celeberrimo attacco ai manifestanti di Valle Giulia, ma non solo).
Due diversi, due “scandali” loro malgrado, due uomini non tanto soli, quanto isolati.
Ma queste definizioni, pur importanti, non ci portano molto lontano. Restano etichette di comodo, copertine in superficie. Mentre c’è qualcosa di ben più profondo (e inquietante) a unire Moro e Pasolini.
Anzitutto una serie di equivoci che hanno tutti come origine un’altra foto, anzi due, ben più famose della fotografia che li ritrae insieme. La prima è la foto del cadavere di Pasolini all’idroscalo di Ostia, quel corpo sfigurato, irriconoscibile (che pareva “un sacco de monnezza” come dichiarò la signora delle baracche del lungomare che per prima rinvenne il corpo), una poltiglia indefinita di sangue e terra. La seconda – forse la più famosa dell’intera nostra storia repubblicana – è quella di Moro nella “prigione del popolo”, che regge in mano la copia di “Repubblica” con alle spalle la bandiera delle Brigate Rosse. Ancora vivo, ma già cadavere.
Sono due immagini che hanno finito per cristallizzare la percezione di Moro e Pasolini. E inevitabilmente per ridurli e sminuirli, se non proprio per cancellarli. Li hanno come ingabbiati e inchiodati lì per l’eternità, uno in un campetto sterrato e l’altro in un grottesco tribunale. E tutta la loro vita, tutta la loro parabola intellettuale e politica, oggi esiste quasi esclusivamente in virtù della loro morte brutale. Così oggi Pasolini è quasi esclusivamente quella notte all’idroscalo e Moro è quasi esclusivamente i cinquantacinque giorni del sequestro. Il prima non interessa, o interessa poco, e più passano gli anni più si scolora e tende all’inesistenza.
Il che è un ulteriore delitto che viene compiuto ai danni di entrambi ogni giorno. Assurdo pretendere di spiegare Pasolini con la sua morte, insensato vedere quella notte atroce come spiegazione e soluzione della complessità immensa della sua opera. E assurdo pretendere di capire Moro, la sua lunga attività politica, il suo credo e il suo agire, con la prospettiva angusta del carcere in cui fu detenuto prima di essere assassinato.
Non solo assurdo, ma perpetra l’equivoco, banalizza, addomestica, istituzionalizza e rende infine rassicuranti due personaggi che, molto al di là di quel destino tragico di morte violenta che li ha fatalmente accomunati, di rassicurante, nelle loro parole, hanno avuto ben poco.
I loro delitti sono due misteri, due rompicapo, su cui senza dubbio sono state dette pochissime verità e diluvi di menzogne. Ma tra questi cumuli di menzogne vanno necessariamente annoverati, tanto per Pasolini quanto (soprattutto) per Moro, anche ulteriori misteri creati ad hoc per distogliere l’attenzione dalle loro parole, dalle loro grida disperate d’allarme che lanciarono ben prima dei tragici epiloghi delle loro esistenze.
L’immagine dell’idroscalo di rimando, per la più semplicistica delle connessioni delitto oscuro – intellettuale scomodo, forgia un Pasolini tramandato fino a noi come l’intellettuale del “processo”, colui che voleva trascinare l’intera classe governativa italiana sul banco degli imputati e accusarla di una “quantità sterminata di reati”. Che sia uno degli articoli più importanti scritti da Pasolini non c’è dubbio, ma colpevolmente lo estrapoliamo totalmente dal suo contesto, finendo per fare dell’intellettuale friulano una voce arrabbiata, roca, feroce, quasi populista. Capire Pasolini vorrebbe dire anzitutto collocare il pezzo sul processo nella sua dimensione, ovvero come parte di un lungo discorso sul potere composto di decine di articoli e portato avanti nell’arco di tre anni sulle colonne del “Corriere”. E di cui il processo è soltanto il passaggio più veemente (e facile). La protesta di Pasolini va molto oltre la Democrazia Cristiana, investe tutti i partiti a partire dal PCI, ma non – ed è questa l’essenza vera dell’angoscia pasoliniana – per desiderio di fare piazza pulita, non per smania antipolitica di distruggere la politica. Ma per l’esatto contrario: Pasolini mette sotto accusa la politica perché ignora, o finge di ignorare, l’assenza di politica che sta travolgendo la società. Pasolini non chiede il superamento della politica, ma il ritorno ad essa.
In un altro celebre articolo intitolato “Il vuoto del potere” (passato alla storia come l’articolo “delle lucciole”) lo dice molto chiaramente: “In Italia c’è un drammatico vuoto di potere. Non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale né, infine, un vuoto di potere in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé”. È l’arrivo del baratro, ciò che denuncia Pasolini, la fine della politica. E il moto movimentista degli anni ’70, ammonisce lo scrittore, non sapendosi mettere a frutto, non sapendosi emancipare da una furia cieca e sconsiderata, sarà ulteriore preludio al vuoto.
Nel suo rimpianto dell’arcaico mondo contadino perduto, della scomparsa delle borgate, non vi era vena reazionaria, ma la visione di un futuro atroce, dove la sparizione dei partiti avrebbe lasciato la società in mano a burocrati e tecnocrati, avrebbe creato un linguaggio truce ed elementare, la piazza sarebbe diventata un agitarsi confuso di forche e linciaggi, antipolitica e qualunquismo il nuovo dna dell’uomo medio del futuro.
Difficile, se non impossibile, leggere – e leggere davvero – Pasolini e non tremare d’inquietudine, guardando fuori dalla finestra in una qualsiasi giornata di questo 2018, pensando alle sue intuizioni di oltre quarant’anni fa.
E forse fa davvero comodo ancora a molti non tanto che non si sappia la verità sul suo assassinio, quanto che si continui tragicamente a banalizzarlo.
Il moto e il vuoto. Sono parole ricorrenti anche negli ultimi discorsi pubblici di Aldo Moro. Suona quasi paradossale dirlo, ma per certi versi se c’era un uomo particolarmente e intimamente vicino per sentire e visione delle cose alle inquietudini pasoliniane, questi era senza dubbio Aldo Moro. Basta uscire dallo schema prigionia-memoriale e leggerseli davvero e con attenzione, quei discorsi. Con stile – e intenti – certo ben diversi, ma sono continui e incessanti gli avvertimenti al nulla, al vuoto che avanza, continui e incessanti gli appelli alla politica tutta a non autodistruggersi, a non consegnarsi alla ferocia dell’antipolitica, alla disumanità della tecnocrazia. Ed è probabilmente in questa angoscia di fine della politica che va letto il progetto del compromesso storico: salvare la politica e salvare l’Italia.
Le cose, come sappiamo, andarono diversamente.
Quando Pasolini fu assassinato, l’unico esponente del parlamento a mandare un telegramma di cordoglio alla famiglia fu proprio Aldo Moro.
E non fu certo un caso.

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