Il corpo nudo e massacrato

La grandezza di Pasolini è tutta nella sua complessità.
Una complessità che però non significa – come molti continuano a ripetere – nella difficoltà (o addirittura nell’impossibilità) di comprenderlo, ma l’esatto contrario: Pasolini è infinitamente complesso proprio in virtù della sua spaventosa chiarezza e della sua vertiginosa semplicità.
Una semplicità ricca e abissale, una chiarezza in grado di contenere in ogni singola parola le più spaventose contraddizioni dei nostri tempi.

Il rifiuto, spesso netto e categorico, che ancora ci impedisce di misurarci frontalmente con le opere e il pensiero di Pier Paolo Pasolini è rifiuto di misurarci frontalmente con noi stessi, con la nostra società, con ciò che, per certi versi nostro malgrado e per altri in maniera orrendamente complice, siamo diventati.

Il corpo, ad esempio. Il corpo nudo, per la precisione.
Pasolini fu il primo, pur nel suo estremo e disperato moralismo, a “liberare” il corpo nudo, a mostrarlo senza filtri, senza sottotesti e senza morbosità di sorta.
In una società, la nostra, intrisa di censure cattoliche, di spiritualità platoniche e stilnoviste, iper cerebrale, dove il corpo è stato sempre accuratamente nascosto, messo da parte, represso, castigato, indice di vergogna, sporcizia morale e impudicizia.

Dalle nostre parti, mondo occidentale, da sempre e per sempre, la nudità del corpo o è stata rimossa oppure è stata introdotta nell’immaginario figurativo come iper-testo, cioè come esplosione morbosa, eccessiva, scandalosa, pornografica. E questi due estremi, purezza e pornografia, non sono altro che due aspetti della stessa medaglia. Una medaglia che elimina l’esistenza stessa del corpo.

Pasolini, nella sua incessante lotta contro l’omologazione, l’appiattimento e l’impoverimento della nostra società, che si fece ovviamente più intensa e apocalittica a partire dagli anni sessanta, dall’esplosione cioè della società dei consumi, capì ed espresse questo: a fronte di un linguaggio parlato (e pensato) sempre più povero, piatto e omologato, reso sempre più vuoto dall’azione criminale della televisione, il corpo, con il suo linguaggio preistorico, vitale e istintivo, rimaneva l’ultimo baluardo di autenticità in un mondo sempre più fasullo.

Nella cosiddetta “trilogia della vita”, il trittico di film girati all’inizio degli anni settanta (“Decameron”, “Racconti di Canterbury” e “Il fiore delle mille e una notte”) Pasolini fece proprio questa operazione: mostrò, per la prima volta, il corpo nudo, frontale, femminile o maschile che fosse.
A scandalizzare, all’epoca, non fu il carico “pornografico” che questa carrellata di immagini così sfacciatamente esibite potevano contenere, ma proprio l’esatto contrario: la loro innocenza e la loro purezza primordiale.

Fu una strada, quella della celebrazione della vitalità del corpo nudo, subito abbandonata da Pasolini. Anzi, non solo abbandonata, ma addirittura rinnegata. In un celebre articolo del 1973 infatti, lo scrittore “abiurò” dalla trilogia della vita.
Perché? Non certo per un ripensamento, ma proprio per essere riuscito a cogliere, nella sua stessa operazione di liberazione, una contraddizione sociale che puntualmente si sarebbe spiegata in tutta la sua violenza.
La strada aperta da Pasolini con la trilogia della vita infatti spalancò le porte, soprattutto al cinema, a una disinvolta rappresentazione della nudità. Ma sapeva, lo scrittore, che tutto questo non avrebbe portato alla liberazione del corpo, ma al contrario alla sua mutilazione.

Con decenni di anticipo, intuì come il capitalismo, spietato nel rendere oggetto di compravendita qualsiasi cosa, avrebbe riservato anche al corpo lo stesso medesimo destino. Intuì che il corpo sarebbe diventata la merce privilegiata della televisione, della pubblicità, che il nudo sarebbe diventato esibizione da vetrina, pura carne da macello, vuota espressione di masturbazioni cerebrali e di violenze ideologiche.

Ecco allora, dopo la trilogia della vita, l’ultimo sconvolgente atto del cinema di Pasolini. Quel film atroce e definitivo che è “Salò”, dove il corpo è ridotto a oggetto e mercificazione. In quella insostenibile sequenza di immagini insostenibili, irrappresentabili, Pasolini – oltre a lasciarci un saggio terrificante sulla vera natura violenta del potere – svela la più truce mercificazione, il più spietato massacro del corpo nudo che la nostra società, oggi, basandosi sull’immagine e sulla comunicazione pubblicitaria, avrebbe messo in atto.

Pensiamoci, ri-guardando “Salò”.
Pensiamo ai corpi vuoti esibiti, al sesso da vetrina, al porno soft da varietà di prima serata. Forse, dietro veline e calendari, riusciremo finalmente a vedere quel massacro. Quel massacro che, senza filtri, Pasolini ci aveva già mostrato quarant’anni fa.

Pensiamo soprattutto alla scena finale di “Salò”, quando dopo la mezzora in assoluto più violenta della storia del cinema, in un clima irreale il film si chiude sulle note di un dolce motivetto, mentre due militi accennano un leggero passo di danza parlando delle loro fidanzate.
Non è la speranza che emerge dal fango, non è barlume di speranza.
I due militi che ballano e parlano di frivolezze mentre nella stanza accanto si compiono i più atroci massacri, siamo noi: noi, ormai spaventosamente abituati ai più silenziosi e orrendi crimini nel sonno e nell’indifferenza più totale.

Riccardo Lestini