Perché eravamo grunge

Di questi tempi sono tornati di moda gli anni ’80. Oggetti, programmi cult, status symbol e vestiti di quel decennio oggi sono protagonisti di un revival a getto continuo, feticci vintage da allineare in una sorta di museo ideale. Prima o poi tutti i decenni tornano di moda, in un sistema incrollabile di corsi e ricorsi storici che s’inseguono a velocità supersonica, molto più (e molto più in piccolo) di quanto prevedeva Vico nel XVIII secolo. A noi, e per noi intendo la mia generazione, quelli nati, per capirci, tra la metà e la fine dei settanta, gli anni ’80 non ci riguardano. Eravamo bambini, neoadolescenti al massimo: quegli anni ci hanno sfiorati da lontano, hanno lasciato impronte tenui e spesso di poca rilevanza. Noi siamo stati gli anni ’90, in tutto e per tutto. È in quegli anni che si è inesorabilmente consumata la nostra storia, la nostra formazione, il nostro essere. Sempre secondo il gioco inevitabile dei corsi e dei ricorsi, so che prima o poi torneranno di moda anche gli anni ’90, i nostri anni ’90. Anche gli anni ’90, presto o tardi, saranno oggetto di revival d’ogni tipo, pezzi da museo d’un confuso tempo che fu. Nonostante io da sempre viva, operi e lavori nel cosiddetto ‘settore culturale’, non ho mai amato molto i musei. Hanno un che di funereo e sepolcrale che mi angoscia, ma soprattutto spesso e volentieri sono privi d’anima: esibiscono materia dimenticandone il senso profondo, come bottiglie di vino invecchiate malamente da cui è evaporato lo spirito, il gusto, il sapore. Ogni cosa quando diventa schema, bandiera, etichetta, perde qualcosa, se non tutto. Per questo voglio parlare dei miei e dei nostri anni ’90 adesso, questa mattina, in questo preciso istante, che non sono ancora tornati di moda, che non sono ancora una serie ci cifre da incasellare.
Cosa furono dunque gli anni ’90? Non saprei davvero rispondere, se non parlando di musica, una lente d’ingrandimento spesso ben più complessa e veritiera di quanto si possa immaginare. Per questo mi sento di dire che se penso agli anni ’90, alla mia giovinezza e alla mia generazione, niente e nessuno l’ha rappresentata meglio del grunge, quel potente, complicato e disperato movimento musicale che nacque a Seattle al crepuscolo degli ottanta.
Avevamo quattordici, quindici o sedici anni. E il vuoto attorno. Nel senso che niente e nessuno ci rappresentava. E soprattutto niente e nessuno ci apparteneva fino in fondo. Il muro di Berlino veniva giù spazzando via in una notte il ‘900, il mondo cambiava improvvisamente e noi con lui, anche se non eravamo in grado di comprendere e cogliere davvero questi mutamenti. Ci sentivamo solo senza direzione, spaesati e confusi. La politica, sia quella ‘ufficiale’ sia quella ‘alternativa’, schizzava via ad anni luce lontano da noi, continuando a riproporre schemi di decenni passati che non ci riguardavano più. E poi la musica. In quegli anni c’erano i mostri sacri ancora in sella, come Bob Dylan, i Pink Floyd o i Rolling Stones, che ascoltavamo rapiti e affascinati, ma che non potevamo sentire nostri fino in fondo. C’era chi non c’era più, come i Doors, Bob Marley e i Led Zeppelin, che ascoltavamo fino all’ossessione, ma non li avevamo vissuti. C’erano i grandi, come i Queen o gli U2, ma anche loro venivano da un mondo che non era il nostro. C’era la vecchia diatriba heavy metal da una parte e pop dall’altra, ormai priva di senso, svuotata di ogni significato. In più il metal era da sempre un mondo chiuso e arroccato, veramente troppo piccolo per la nostra fame smisurata di mondo. Poi d’improvviso arrivarono i Guns ‘n’ Roses. Loro sì, loro riuscirono a sparigliare le carte, a portare qualcosa di nuovo e ad infiammarci, specie con il loro primo indimenticabile album. Eppure neanche i Guns riuscirono a rispecchiare i nostri tempi fino in fondo. Il perché è molto semplice: Axl, Slash e company erano rockstar. Erano la versione sporca, rabbiosa e maledetta dei divi pop, liberatori e catartici senz’altro, ma pur sempre lontani da noi. Lontanissimi. Perché non avevamo bisogno di rockstar, di divi, di persone che salivano su palchi immensi e esibirsi, petto in fuori e sguardo dritto sulla folla oceanica, non avevamo bisogno di performances, di show. Noi eravamo la X generation, la complicata generazione di mezzo, quelli che dovevano muoversi in quello spartiacque desolato e pieno di buche che era il terreno di passaggio tra il vecchio e il nuovo mondo. Eravamo come Potsdamer Platz a Berlino: un deserto da riempire e da costruire. E come tutte le generazioni di mezzo eravamo timidi, impacciati, irrisolti, arrossiti, imbarazzati da noi stessi: in ritardo su quel che era stato e in anticipo su quel che sarebbe stato.
Per questo le rockstar non ci avrebbero mai preso il cuore e le viscere. Per questo eravamo altro. Per questo eravamo grunge.
Il grunge era nato in punta di piedi, nel silenzio dei garage di Seattle, senza sogni smisurati di stadi stracolmi e classifiche di bildboard da scalare. Nato con l’unico desiderio di fare musica. Grunge significa ‘sporco’. Già il nome con cui veniva etichettata questa musica aveva tragicamente a che fare con tutti noi, che eravamo devastati da cose patinate, falsità, pillole indorate, mezze verità, campane di vetro d’ogni sorta, che ci tenevano lontani da qualsiasi verità possibile. Avevamo bisogno di tornare a frugare nello sporco della vita vera. E lo stile grunge era proprio questo: niente trucchi, niente inganni, niente show, niente effetti pop o rock. Via le tastiere, via i sintetizzatori, via i fumi, i giochi di luce, le scenografie mastodontiche. Basso, chitarra, batteria, palco vuoto e volume alto. Solo musica, nessun intermediario tra testo/accordi e noi.
Eppure tutto questo, da solo, non sarebbe bastato. Perché avevamo bisogno di una musica che non fosse solo una musica. Ma che fosse un ideale, un modo di pensare, un’idea di mondo e di vita. Ovunque il mondo era in tumulto. C’erano le guerre, gli innocenti morti ammazzati, le bombe, gli scandali, razzismi vecchi e nuovi che in ogni dove rialzavano la testa, i neonazismi che crescevano in maniera spaventosa. In un’epoca confusa, senza direzione, senza nessuno che ci fornisse una bussola o una minima spiegazione dei mille disastri che ci stavano travolgendo, avevamo bisogno di non sentirci soli, avevamo bisogno di urlare da che parte stare. E il grunge fu anche tutto questo. Fu anche urlo rabbioso, presa di posizione netta e inequivocabile. Eravamo grunge perché i Nirvana scrivevano nei loro dischi: “se pensate che esistano razze inferiori, se pensate che esistano guerre giuste, se pensate che le donne debbano stare a casa a sfornare figli, per favore, non comprate questo album”. Eravamo grunge perché per la prima volta nella storia un movimento musicale aveva tra le sue punte di diamante gruppi composti da sole donne, come le L7 e le Hole. Eravamo grunge perché i Soundgarden e gli Alice in Chains scrivevano canzoni di protesta. La ‘nostra’ protesta. Ed eravamo grunge, perché nel rock di quei tempi (come quello dei Guns ‘n’ Roses) si parlava di party, bella vita, macchine veloci, amore, donne, sesso e divertimento, mentre nel grunge si parlava del fango della vita, solitudine, emarginazione, sofferenza, ribellione.
Anche il cosiddetto ‘vestiario’ grunge era un nostro specchio e specchio dei nostri tempi. Dico ‘cosiddetto’ perché in realtà, anche se oggi tutti lo sostengono, non esisteva un vero modo di vestire grunge. Metal, dark e punk erano ed erano stati stili molto forti e definiti. Ma noi eravamo gli anni ’90, eravamo la X generation ed eravamo la terra di mezzo. Eravamo nessuna appartenenza, eravamo il nulla disperato e disperante. Gli stili netti non ci appartenevano. Il cosiddetto ‘stile grunge’ era fatto di vestiti semplici, privi di marche, lisi, sdruciti, vagamente trasandati. Maglioncini, jeans strappati, scarpe basse da tennis o anfibi. E poi sì, le mitiche camicie a quadri. Quelle forse furono l’unico vero marchio di fabbrica. Eravamo grunge anche perché vestirci a quel modo era come andare in giro e dire a tutti: “eccola, guardatela qui….questa è la nostra solitudine”.
E il simbolo di tutto questo non potevano che essere i Nirvana. Non poteva che essere Kurt Cobain. Perché era quanto di più lontano ci potesse essere da una rockstar. Perché era timido come noi, impacciato come noi, confuso come noi, imbarazzato da se stesso come noi. Un Piccolo Principe. Era timido e gentile, arrossiva, balbettava, teneva gli occhi bassi e quella folla ai suoi piedi lo metteva a disagio. Era tutti noi senza volerlo essere, era gli anni ’90 senza saperlo. Quando esattamente venti anni fa uscì “Nevermind” nei negozi di dischi scoppiò davvero la rivoluzione. E tutti ci sentimmo meno soli. Perché quello non era soltanto un disco: era la fotografia della nostra anima, era la storia della nostra generazione. Eravamo noi.
Dicevano che i testi dei Nirvana erano oscuri, incomprensibili, criptici. Altri dicevano che non significavano niente. In realtà non riuscivano o non volevano capirli. Per noi erano chiarissimi. Anche De André diceva che non esistono valori giusti o sbagliati, ma solo tempi e generazioni diversi: quando non capiamo qualcosa è solo perché fuoriesce dai nostri tempi e non riusciamo a decrittarlo. “Smells like teen spirit” è la canzone giustamente più celebre, quella che più di ogni altra rappresenta la nostra generazione meglio di qualsiasi saggio socioantropologico. E, ironia della sorta, è quella che più di ogni altra ha avuto l’etichetta di canzone dal significato ‘oscuro e incomprensibile’. Macché. È più chiara del mar di Sardegna.
Quasi emblematico che quel titolo nasca da un equivoco, visto che tutta la nostra generazione è figlia di un gigantesco equivoco. Quando faceva il liceo una ragazza scrisse sui muri del bagno ‘Kurt smells like teen spirit’ (Kurt profuma come il Teen Spirit, lo spirito giovane, un deodorante venduto in America in quegli anni). Kurt lo prese come un complimento. In realtà l’autrice del graffito riteneva che il Teen Spirit fosse un pessimo deodorante, e con quella scritta voleva semplicemente dire ‘Kurt puzza’. Ecco così che l’inno di una generazione non compresa e che non comprende nasce da un’incomprensione adolescenziale e dolorosa. Fin qui l’aneddotica. Poi il significato profondo. Quello vero. In quella frase all’apparenza così oscura c’era racchiuso tutto il senso della nostra solitudine e del nostro smarrimento. Una generazione o in anticipo su tutto o in ritardo su tutto. Una tragica terra di mezzo mai nei tempi giusti, e per questo condannata a non crescere mai, a rincorrere l’età adulta disperatamente senza mai afferrarla, condannata a odorare per sempre di Spirito Giovane. Basta guardare il video per rendersene conto. Palestra di un qualunque liceo. Alcune chearleaders che muovono i pon pon a tempo di musica. Nella gradinata stanno assiepati una cinquantina di ragazzi. Dietro alle chears i Nirvana, con Kurt nascosto dietro i suoi capelli biondo grano. Il ritmo sale, incede, le ragazze fanno mirabolanti evoluzioni, i ragazzi in gradinata si lanciano in un ‘pogo’ selvaggio accatastandosi uno sull’altro, i musicisti si scatenano. Il ballo selvaggio, le urla di Kurt, le divise delle chears con la “A” di Anarchia bene in vista. Voglia di ribellione, cambiamento, voglia di esprimere noi stessi, i nostri ideali. Ma siamo dentro la palestra di un liceo, dentro le divise da chears, dentro abiti da ragazzi: siamo prigionieri di un mondo che ci considera ‘ragazzi’, prigionieri di un mondo che ci impedisce di crescere. E allora ecco il senso dell’urlo del ritornello, dove Kurt grida disperato tutta la nostra emarginazione e solitudine: “mi sento stupido e contagioso….sì, un rifiuto…”. Oppure il video di “Lithium”, dove Kurt sfascia in mille pezzi la sua chitarra. Non era un’imitazione di Jimi Hendrix. Hendrix bruciando la chitarra bruciò simbolicamente il capitalismo. Ma era il ’68, era Woodstock. Kurt sfasciò la chitarra per solitudine e frustrazione, perché voleva spezzare le catene, perché voleva un altro mondo. Perché erano gli anni ’90 e perché noi eravamo grunge.
Tutto questo e molto altro ancora era il grunge. Tutto questo e molto altro ancora eravamo noi. E per tutto questo e per molto altro ancora eravamo grunge. Perché eravamo soli, perché eravamo la terra di mezzo, perché eravamo gli anni ’90. Perché quando nel febbraio del ’94 i Nirvana sbarcarono in Italia andammo tutti a vederli a Roma, e per vederli Tommaso e Gabriele scapparono letteralmente di casa, Emilia dormiva da Alessia e Alessia dormiva da Anna e Anna dormiva da Cristina e tutti dormivano a casa mia, che ero tra i pochi ad avere il permesso. Perché tutti andammo a quel concerto a costo di non uscire più di casa, e fu una delle notti della nostra vita. Perché d’estate andavamo in spiaggia con gli anfibi e lo stereo portatile e ci bastava alzare a tutto volume “Come As You Are” e abbracciarci per stare bene e sentirci insieme e felici.
Ciao Kurt, ciao amici miei….

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