Per un teatro dell’attore

È tempo di provocazioni.

Per questo io, regista, dico: buttiamo a mare i registi, buttiamo a mare il teatro di regia, buttiamo a mare buona parte del teatro del novecento.

Ripartiamo dall’attore, dal suo corpo, dal suo sudore.

Perché il teatro esiste in quanto esiste un attore davanti a un pubblico, in quanto rito che si compie in virtù della simultanea presenza di un attore e di uno spettatore.

Perché senza attore non esiste teatro.

Perché la regia, e il regista, a suo tempo furono invenzioni geniali e necessarie, ma oggi sui palcoscenici di tutto il mondo, dai più alti professionisti ai più invisibili amatori, subiamo un eccesso di regia che ha deformato quel ruolo originario tramutandolo in puro esercizio di potere.

Perché il regista come dio supremo e artefice ultimo e assoluto dello spettacolo è un tetro e inquietante specchio dei totalitarismi di oggi e ieri.

Perché questo teatro iperregistico che siamo costretti a subire ha ucciso e umiliato l’attore, rendendolo muta marionetta, pupazzo senza fili.

Perché questo teatro dominato dalla superregia ha tolto all’attore il dono mistico della comunicazione e lo ha reso uno semplice schermo bianco su cui proiettare le ossessioni del regista.

Perché questo teatro di ultraregia ha distrutto l’essenza dello spettacolo come creazione collettiva e partecipata, magico contenitore di competenze plurime e infinite suggestioni.

Perché questo teatro di regia esasperata ha reso l’attore inconsapevole, mero tramite senz’anima di un punto di vista che non conosce.

Perché il regista supremo ha svuotato e mortificato gli autori.

Perché questo teatro di regia che siamo costretti a subire ha trasformato i teatri del mondo in sepolcri imbiancati, le stagioni teatrali in cimiteri dove si ripetono fino al delirio le stesse identiche cose. L’eccesso di regia è sinonimo di eccesso di repertorio: si propone e ripropone fino allo sfinimento Goldoni, Pirandello, Shakespeare, Molière, e pochi altri, e di questi altri sempre le stesse sei o sette opere. Così dai teatri è sparita la drammaturgia contemporanea, è sparita la novità: la proposta si limita a infinite versioni l’anno della Locandiera, del Malato immaginario, dell’Enrico IV, opere martoriate dal gioco perverso delle infinite interpretazioni possibili. Possiamo, in un anno, vedere sette pirandelli diversi, vale a dire sette diverse masturbazioni paranoiche di altrettanti registi.

Perché questo teatro malato come un morbo si è esteso a macchia d’olio, e dai grandissimi ha intaccato le vergini terre del teatro amatoriale, anch’esso caduto in un buio preoccupante.

Per questo è necessario buttare a mare i registi e il teatro di regia, per questo è necessario ripartire dagli attori.

Che i registi di domani rinuncino a essere dio, che i registi di domani tornino a praticare la maieutica socratica, che i registi di domani sappiano far emergere l’anima degli attori.

Che i registi di domani rinuncino a se stessi, che i registi di domani tornino a far esplodere l’ego degli attori, che i registi di domani sappiano usare, oltre che gli occhi, anche le orecchie.

Che i registi di domani abbiano il coraggio di cercare il nuovo, che i registi di domani ritrovino il coraggio di osare, di essere controcorrenti, di rischiare il tutto per tutto in ogni singola scena.

Che i registi di domani seguano percorsi mai battuti, strade vergini e rigeneranti.

Che gli attori di domani tornino a essere creativi, creatori di se stessi.

Che gli attori di domani tornino a essere provocatori, eccessivi, tracotanti, che gli attori di domani tornino a prostituirsi in nome del teatro.

Che gli attori di domani tornino a mostrare se stessi, a offrire il proprio corpo, a essere crudeli, spietati, a prendere a schiaffi il pubblico, che siano ingombranti fantasmi della memoria, che perseguitino gli spettatori fino ai labirinti dei loro sogni, che portino sfacciatamente la loro vita sul palco e la offrano come gocce di splendore.

Che gli attori di domani possano urlare di dolore, possano piangere&soffrire&gioire irriverenti nello spazio di una sola battuta.

Che gli attori di domani sappiano morire e risorgere dentro se stessi.

Che gli attori di domani sappiano scrivere poesie sul loro corpo, sul loro volto e sulla loro voce.

Che il teatro di domani torni a essere un infinito carnevale, trionfo della carne e dello spirito, orgia barocca di carne e parole, delirio inestricabile di infiniti egoismi che si sfiorano e s’incastrano, caleidoscopio stupendo di milioni di anime e di milioni di vite, suprema avventura collettiva e condivisa, trionfo di emozioni rubate, furti, plagi, contaminazioni e citazioni infinite.

Che il teatro torni a essere l’urlo esultante delle viscere umane!

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