Se ci ripenso, Pablito…

Se ci ripenso la prima cosa che mi ricordo è la mia collina, le piazzette, le strade sterrate, il brecciolino della piaggia, il bar che era pure alimentari e giornalaio e chissà che altro, le strade segrete per la macchia e il Trasimeno che visto da lassù pareva quasi un mare. E la casa di mia nonna soprattutto, assurdamente incastonata nello scheletro del castello che fu, con quella sala da pranzo dove non batteva mai il sole e restava fresca pure quando la canicola spezzava il fiato e grondavi sudore soltanto ad aprir bocca. Ma non quel giorno, cinque luglio millenovecentottantadue, il più torrido di una delle estati più calde di sempre.
Quel giorno, mi ricordo, pressati in quella sala da pranzo dove non batteva mai il sole, c’erano calzoncini e canottiere Adidas, zoccoli olandesi ed espadrillas, fiati e sudori e aria spessa di fumo di sigarette e odore forte di birra ghiacciata. C’era l’impossibile, quel giorno, quando i telecomandi non esistevano e il solo fatto che la televisione fosse a colori era un miracolo. Ed era proprio un miracolo quello che stava succedendo dentro quella scatola, nei quaranta gradi dell’Estadio Sarrià di Barcellona, il parente povero del Camp Nou e chissà perché Italia-Brasile la fecero giocare in quel minuscolo inferno. Un miracolo che prendeva via via forma nella voce spezzata e quasi incredula di Nando Martellini, senza preavviso costretto a narrare l’epica assurda e immensa del brutto anatroccolo che di colpo diventava cigno e con tre colpi di bacchetta schiantava senza complimenti gli dei del pallone. Il primo di testa, il secondo un siluro da fuori area e il terzo la più elegiaca delle rapine sottoporta. Tre colpi e un solo nome, quello di Pablito.
Come si fa a non ricordare quel giorno, Enrico l’elettricista in ginocchio abbracciato a mio padre, Franco il muratore che rompe una sedia e il Grande Sergio, il dottore, che non capisce che il gol di Antognoni è stato annullato e corre via a strombazzare con la Fiat 127 perdendosi gli ultimi interminabili tre minuti, Dino Zoff che all’ultimo istante inchioda la palla sulla riga di porta e io, nelle urla finali di gioia e liberazione, lanciato in aria come un trofeo da quei giganti che mi avevano invaso la casa. Io, sei anni appena, che non sapevo ma capivo di aver visto qualcosa di grandioso.
Grandioso come la notte di sei giorni dopo, undici luglio, Estadio Santiago Bernabeu, che Cabrini può pure sbagliare un rigore e far piangere a dirotto mia sorella che lo amava perdutamente, tanto la coppa ce la prendiamo lo stesso e lo stesso siamo campioni del mondo campioni del mondo campioni del mondo e lo stesso facciamo festa e non dorme nessuno manco mio cugino Fabio che ha sì e no un mese e mezzo di vita e Chiara mi prende per mano e mi regala la sua bandierina e nessuna notte sarà mai più grande di questa e la strada l’ha aperta sempre e ancora lui, Pablito, Paolo Rossi che “era un ragazzo come noi”.
Che poi no, non parla di lui la canzone, ma il senso di tutto è proprio questo, che paolorossi è un nome così comune che può essere di tutti e tutti eravamo paolorossi e lui, Paolo Rossi, era davvero come tutti noi, in quei tempi là color pastello, quando il calcio era solo poesia e sudore “e terra e polvere che tira vento e poi magari piove”, quando i calciatori avevano facce da operai di provincia e non sapevano stare in posa e in copertina ci stavano male e a disagio, quando la perfezione non esisteva e i sogni avevano il sapore di un pallone graffiato che rimbalza nel fango, quando Pertini poteva urlare “non ci prendono più” e la coppa si festeggiava giocando a scopone come avessimo vinto il torneino dell’ARCI, quando ogni cosa era possibile e sul tetto del mondo ci portava un ragazzo con le spalle da uccellino e lo sguardo timido.
Quando nella mia piccola e inutile storia di calciatore di terra e cemento non volevo altra maglia che non fosse quella con il numero venti.
Grazie, Pablito.

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