Lettera a mio nonno

Caro nonno adorato,
penso spesso a te, da una vita. E ogni anno, in giorni come questo, di ricorrenze e anniversari, ti penso sempre un po’ di più. Oggi è il 27 gennaio 2012, giornata della Memoria, e se tu fossi ancora qui tra noi avresti qualcosa come novantatré anni. Che non sono pochi, ma che forse non sono nemmeno tanti, in quest’immensità di mondo che proprio non c’è verso di capire o spiegare.
Tu, nonno adorato, sei senz’altro la cosa più strana che mi sia mai capitata. Non so che suono avesse la tua voce, non l’ho mai sentito. Non so quali fossero i tuoi gesti consueti e quotidiani, il modo in cui muovevi le mani, la consistenza della tua pelle. Non ho mai potuto stringerla, la tua mano, né sentirla frusciare sulla mia guancia nel movimento dolce d’una carezza. Quando te ne sei andato di anni ne avevi appena quarantasei, mia madre e mio padre s’erano appena fidanzati e io non ero nemmeno una vaga ipotesi nella loro testa. Era il 1966, nonno, c’erano le lambrette bianche e al teatro lassù in collina si ballava tenendosi stretti stretti, guancia contro guancia in un lento e irresistibile frusciare di vestiti leggeri.
Quindi no, caro nonno, non ti ho mai conosciuto. Eppure tu sei stato l’ombra costante dei miei anni, assurda ma reale, il termine di paragone più forte e insondabile del mio intimo. Pur non conoscendoti tu sei stato una delle persone in assoluto più determinanti della mia vita e del mio essere. Il perché di questa cosa per certi versi incomprensibile sta tutto nel peso di quella storia (o Storia) immensa che hai deciso, andandotene, di lasciarmi. Hai scelto me, anche tu senza conoscermi, senza sapere se un giorno, chissà quando, sarei mai arrivato, perché tu che vivevi in una casa abitata da donne (tua moglie e le tue due figlie), sentivi la necessità di lasciare il tuo bagaglio pesantissimo di memoria al tuo primo erede maschio. Pensavi fosse più importante. Delle donne ti fidavi, degli uomini un po’ meno. Sono gli uomini, in fondo, a fare la guerra.
Così mi hai scelto, fidandoti di me e fidandoti del mio arrivo nel mondo, prima o poi.
Suonavi la fisarmonica e amavi il vino e amavi una donna, mia nonna. Quella fisarmonica oggi ce l’ho io, la conservo intatta come il segno più tangibile da mostrare al mondo del tuo passaggio sulla terra. Però non ho mai voluto impararla a suonare, mi tremano le mani solo nell’imbracciarla. Il vino invece lo amo anch’io e la tua donna, mia nonna, è stato impossibile non amarla. Quando lei, tua donna e mia nonna, ha deciso di metterci in comunicazione, avevo cinque anni. Non sapevo cosa fosse il fascismo, cosa fosse la resistenza, cosa fossero i campi di sterminio. Ma da quel giorno, 1981, cinque anni appena, mi è entrato tutto dentro. Da quel giorno ti ho amato disperatamente, ti ho rincorso in ogni angolo del mondo. Ho preso sulle spalle tutta quella responsabilità che hai deciso di lasciarmi e che forse non meritavo di portare, ti ho reso l’assenza più presente e dolcemente ingombrante della mia esistenza. Così è tutta la vita che ti amo, tutta la vita che amo qualcosa che non conosco. Amare qualcosa che non si conosce: credo che abbia molto a che fare con l’essere scrittore. Ma questa è un’altra storia.
Eri un ragazzo, nonno, in quell’estate di sangue tra i cani della Vermacht e l’urlo atroce delle SS che sbranavano la macchia e sfondavano gli ulivi, eri un ragazzo braccato, condannato, torturato, in catene. Eri un ragazzo sul treno piombato che ti portava a Bergen Belsen. E i forni da pulire e le pile di cadaveri bruciati che avvelenavano l’aria e come cazzo hai fatto, dimmi, a sopravvivere dodici mesi in quell’inferno, come, cristosanto, a tornare a casa nei tuoi trentacinque chili e cuore sfondato?
Quando sei tornato, nonno, avevi venticinque anni. Venticinque anni e tutta sta vita addosso.
Così io oggi, nonno, ti penso e ripenso, ti piango e rimpiango.
Così io oggi, nonno, ancora ti prometto che non dimenticherò e ricorderò, che un giorno la scriverò tutta, la tua storia, per filo e per segno, e scriverò dei pomeriggi in quel paese di collina che t’ha visto uomo e m’ha visto bambino, di quelle strade che non portano da nessuna parte e di quelle ore che non passano mai tra la neve e le preghiere d’una nuova primavera. Che scriverò dell’estate di sangue e dei tuoi venticinque anni, degli ebrei che ti morivano tra le braccia nel filo spinato di Belsen e della tua fisarmonica.
Che sarò degno di tutto questo.
Che t’amerò e non ti tradirò.

Riccardo

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *