Massimo Troisi – “Il Postino”

Se dovessi raccontare il mio (e chissà poi che per qualcuno non sia anche il “nostro”) 1994 in una manciata di film visti al cinema, sarebbe impossibile. Letteralmente impossibile. Perché sì, gli anni 90 furono in generale anni di un’abbondanza irripetibile in quanto a pellicole (in quantità per maggiori investimenti nella settima arte, certo, ma anche e soprattutto in qualità), specie alcune stagioni baciate letteralmente dagli dei (vedi le puntate precedenti di questa rubrica), ma il 1994 – 1994!!! -, anno complicatissimo, devastante e cruciale (il più importante??) per la mia generazione, fu veramente una sequenza infinita di film, una scarica, una mitraglia. Rimetterli in fila è stato difficile e complicato, fare una cernita (anche perché praticamente tutti i fine settimana di quell’anno andai ALMENO una volta al cinema) necessario, ma che comunque ha prodotto un numero esorbitante. Così ci vogliono i soliti due post (come per il 1991 e il 1993), ma i titoli sono di più. Ergo, monito di avvertimento: saranno post molto lunghi, siete in tempo ad abbandonare!
Primo post, questo, dedicato ai film italiani (con qualche puntata all’estero). Nel prossimo passiamo all’international.
Vai col tricolore…

Una manciata di anni fa Alessandro Benvenuti, a una tavola rotonda sulla recitazione cinematografica, parlando delle difficoltà del cinema odierno, disse come secondo lui i problemi siano principalmente “produttivi”. Ovvero, gli artisti – in potenza – non mancherebbero… a mancare, anche in potenza, sarebbero i produttori, non solo per un oggettivo recesso economico, ma anche (soprattutto?) per una altrettanto oggettiva incapacità di investimento. E concludeva, l’attore e regista toscano, dicendo che l’epoca più felice, da lui vissuta in prima persona, per quantità, qualità e capacità produttiva di rischio e sperimentazione, fu proprio quella dei primi anni novanta.
E allora partiamo proprio da lui, dal buon vecchio Benvenuti, che dopo averci deliziato negli anni 80 con autentici capolavori del più radicale surrealismo mai visto in Italia (Ad ovest di Paperino resta, in questo senso, una perla incredibile), negli anni 90 trovò una sorta di equilibrio, non rinunciando al suo umorismo feroce e stralunato, ma incastonandolo in storie non solo realistiche, ma anche complesse. Nel 1994 egli scrisse (assieme al drammaturgo Nicola Zavagli – nota indispensabile, poiché il Benvenuti è egli stesso anzitutto uomo di teatro, ma nella scrittura dei film si circonda di teatranti, il che spiega il ritmo e l’andatura “scenica” dei suoi film più grandi), interpretò e diresse il vertice assoluto della sua carriera cinematografica: BELLE AL BAR, una storia d’amore dolce, commovente, irresistibile, raccontata con una sensibilità vertiginosa e profondissima, senza compiacimenti e davvero al di fuori di qualsiasi facile stereotipo, tra un timido e impacciato restauratore (Benvenuti) e una travolgente e spericolata transgender (magistralmente interpretata da Eva Robins). Un film che prima di tutto è un autentico balsamo contro l’idiozia che ancora oggi (anzi, forse oggi molto – ma molto – più di ieri) regna sovrana. In secondo luogo, una sceneggiatura che andrebbe studiata nelle scuole di cinema, tanto è perfetta (e sì che non siamo mica gli americani, che co sta storia dei tre atti di Syd Field… ma va be’… ).

Anche Carlo Verdone disse la sua in quel 1994, con PERDIAMOCI DI VISTA, ambizioso film che racconta la storia tra un conduttore televisivo senza troppi scrupoli e una ragazza paraplegica (una splendida Asia Argento). Ambizioso e complicato, perché rappresenta una cesura abbastanza netta nella carriera di Verdone. È infatti l’ultimo film di quella fase “seria”, “agrodolce”, di commedia sentimentale venuta dopo gli esordi spiccatamente comici, inaugurata dal bellissimo Io e mia sorella, glorificata dallo splendido Compagni di scuola e che va appunto concludendosi con Perdiamoci di vista. Non credo si fosse esaurita l’ispirazione per quel genere, ma Perdiamoci di vista fu una delusione per la critica e per il pubblico (arrivata dopo alcuni risultati altalenanti), il che convinse Verdone e la sua squadra a sterzare bruscamente e ritornare alle origini (idea da cui poi sarebbe nato il fortunatissimo Viaggi di nozze). Perdiamoci di vista fu una mezza delusione anche per me: è fiacco in vari punti, soprattutto mette troppa carne al fuoco, vuole troppo e quaglia poco, finendo per sprecare sia il talento dei due protagonisti, sia un plot che era comunque molto buono. Peccato. Soprattutto per la scelta di cambiare rotta: a me il Verdone comico delle origini piace solo quello originale… la riedizione che seguì questo film, non mi ha mai convinto.

Ma se parliamo di delusioni, la più colossale – e drammatica – dell’anno fu senza dubbio OCCHIOPINOCCHIO di Francesco Nuti. La critica gli si accanì addosso con una ferocia incomprensibile. Davvero, a tutt’oggi io non ricordo un accanimento tale verso un film (e sì che di brutti film se ne fanno di continuo… ); “Ciak!”, la rivista di cinema più in voga all’epoca, gli dedicò un servizio intero. Per farlo a pezzi, ovviamente. Ancora oggi non riesco bene a capire perché. Un film brutto lo si stronca e stop, lo si prende in giro e stop. C’era altro, parecchio altro. Non so se una specie di ritorsione contro chi aveva da sempre avuto, senza farne alcun mistero, un pessimo rapporto con la stampa. Oppure una sorta di monito a chi aveva osato “sforare” un tetto di budget non stabilito ma implicito, rischiando di far saltare il banco degli standard di produzione del cinema italiano. O chissà che altro. Fatto sta che le vicende sono abbastanza note: Nuti riuscì a strappare un budget di 13 miliardi (cifra apocalittica per il cinema nostrano) per questo progetto a dir poco ambizioso, da realizzare negli States. La Cecchi Gori Group fece degli sforzi ma accettò la sfida (del resto Nuti era una delle galline dalle uova d’oro… ). Ma Nuti sfora le tempistiche e, soprattutto, il budget. La morte di Cecchi Gori senior rallenta il tutto. I costi lievitano fino a sfiorare i 30 miliardi, i ritardi si accumulano, Cecchi Gori Junior chiude di fatto le riprese, Nuti mette altri due miliardi di tasca propria, finisce le riprese come può e il film è pronto con un anno di ritardo. Vicissitudini che di certo ebbero molto peso sulla resa del film, che non a caso manca di linearità e coerenza. Frammentario, episodico, qualità discontinua delle varie sequenze. Però a me piacque. Oggi ne so leggere con maggior chiarezza limiti e difetti, ma all’epoca a me piacque davvero tanto. Ci trovai tutta quella infinita sensibilità stralunata che mi faceva disperatamente amare Nuti da sempre, e che qui è travasata in un film complesso e a tratti sorprendente, tenerissimo e sofisticato che, causa budget e causa impreparazione italiana a simili opere “visionarie” (e causa velleità eccessive degli autori), non raggiunse i risultati sperati. Quell’accanimento critico fu tuttavia esagerato e criminale, visto che costò il baratro della depressione a uno dei comici più geniali del nostro cinema. Non si sarebbe più ripreso.

Quell’anno parlarono tutti i “mostri sacri”. Quindi anche Roberto Benigni, ovviamente campione d’incassi con IL MOSTRO, ultimo film prima della svolta epocale con La vita è bella e ideale conclusione di quella “trilogia degli equivoci” comprendente Il Piccolo Diavolo e Johnny Stecchino. Film irresistibile senza troppo altro da dire, ritmo vertiginoso e gag da scompisciarsi senza riuscire a trattenersi. Gli altri due film sopra citati – soprattutto il primo – avevano un plot sicuramente più curato e originale, questo è più scollacciato e ripetitivo, ma in quanto a ritmo è decisamente imbattibile. Grandioso, uscii dal cinema con la pancia che mi faceva male dal ridere e ancora oggi, alla centesima visione, gli effetti sono gli stessi.

Sempre per la serie “scritto diretto e interpretato”, nel 1994 ci fu anche spazio per una nuova prova di regia del grande Alberto Sordi, con il film NESTORE, L’ULTIMA CORSA. Adesso io non so in quanti si ricordano questa pellicola, che io vidi addirittura in una matinée a scuola, ma parliamo davvero di un bellissimo film, dove Sordi, pur rimanendo fedele a se stesso e ai suoi “topoi” più cari, al tempo stesso esce dai suoi canoni con una storia struggente e poeticissima, dove Nestore, il vecchio cavallo dell’anziano vetturino protagonista (ovviamente interpretato da Sordi), è la metafora del cannibalismo della società post-post-moderna che va affermandosi in quegli anni. Una critica, delicata ma incisiva, della logica dell’usa e getta che non risparmia niente e nessuno. E passa sopra qualsiasi cosa. Da rivedere e riscoprire.
E se parliamo di pezzi di storia del cinema, troviamo anche, nel 1994, CARI FOTTUTISSIMI AMICI, del maestro Mario Monicelli, titolo che di solito nella sua strepitosa filmografia si tende a dimenticare e a seppellire sotto il peso di tanti capolavori. No, di certo non è Amici miei e nemmeno L’armata Brancaleone. Nemmeno Speriamo che sia femmina. Ma è un godibilissimo film con un Paolo Villaggio in forma straordinaria, circondato da un gruppo di attori toscani che di lì a poco avrebbero spopolato (Hendel, Ceccherini… ), sarcastico, ferocissimo, “cattivo” come solo quel ragazzaccio di Monicelli sapeva essere. Boccata d’ossigeno in tanto stucchevole politically correct. Anche questo, da rivedere e riscoprire.

Per la serie “tormentoni dell’anno” un film destinato, a modo suo, a diventare leggendario. Sto parlando de I MITICI (COLPO GOBBO A MILANO). Dunque, questo film lo vedemmo tutti. E sottolineo trenta volte tutti. Chi perché era appunto un tormentone, chi perché il trailer faceva effettivamente ridere (Ricky Memphis che dice “te dico solo ‘na cosa, se chiama Debbborah, con l’acca!” lo abbiamo citato per anni, per non parlare di Monica Bellucci che scendendo dal treno dice “Aho, e che me stai a scippa’ er culo??”), chi perché sperava che la Bellucci mostrasse le tette.
Filmetto senza alcun clamore, ma quanto meno sinceramente divertente e comunque diverse spanne sopra qualsiasi altro prodotto simile.
Se parliamo di delusioni, restando nell’ambito della commedia, allora ecco MANIACI SENTIMENTALI, terrificante esordio alla regia di Simona Izzo, che avrebbe inaugurato un agghiacciante filone cinematografico purtroppo tutt’ora in voga. Ovvero: cast di qualità (ma che poi a ben guardare è la “lobby” romana del momento), regia inesistente, sceneggiatura pretenziosa che vorrebbe essere Woody Allen mentre in realtà è solo il trito e rifritto ombelico dell’alta borghesia romana, battute forzate e profondità non pervenuta. Sono quelli che criticano Vanzina, ma magari per loro… Inspiegabile David di Donatello alla Izzo per la miglior regista esordiente.
Ma al cinema a vedere Maniaci Sentimentali ci finii per caso (tradotto: inseguivo una ragazza che ci andava e quindi… ), mentre a vedere IL BRANCO di Marco Risi no, per niente. Ci andai pieno di aspettative, perché Risi era il regista di Mery per sempre e Ragazzi fuori, film molto più che in cima alle mie ossessioni di quegli anni. Inoltre Risi era il capofila di quel neo-neorealismo che cercava di affermarsi in quegli anni (vedere puntate precedenti per i dettagli). Annunciato come il prodotto più estremo di questo filone, il film fa tragicamente acqua da tutte le parti. Quando vuole indignare, annoia, quando vuole scioccare al massimo crea un po’ di disgusto. E più volte scivola nel ridicolo involontario. Recitato malissimo (la grandezza di Mery per sempre erano gli attori presi dalla strada, qui sono attorucoli pretenziosetti che si sforzano di fare gli smargiassi di borgata con pessimi risultati), banalizza tematiche gigantesche (lo stupro, l’omertà, il machismo più radicale, la logica del branco… ) in maniera quasi criminale. Fu, purtroppo, la pietra tombale del genere. Peccato, perché in Italia di un certo tipo di cinema ce ne sarebbe stato bisogno eccome.
Altra delusione cocente (tra l’altro vista a pochi giorni di distanza da Il branco) fu CUORE CATTIVO, di Umberto Marino, lo stesso autore di Italia – Germania 4-3: pretenziosissima denuncia dei mass media tradotta in un pastone confuso e insostenibile che spreca il talento di attori di prim’ordine, a partire da Kim Rossi Stuart. E delusione abissale fu, ahimè, CON GLI OCCHI CHIUSI, trasposizione cinematografica del romanzo di Sua Maestà Federigo Tozzi (che avevo appena letto dietro ordine della prof.ssa Polezzi) da parte di Francesca “amore mio” Archibugi. Di lei avevo amato tutto, ma questo film è tutto sbagliato (trascinai al cinema l’amico R. A., che si convinse per la presenza della Caprioglio; quando capì che non avrebbe mai mostrato il culo, mi tolse la parola per un mese).
Delusione anche per IL TORO di Carlo Mazzacurati. Primo film con una grande distribuzione per un regista ultra indipendente (della scuderia Sacher di Nanni Moretti), risultò fiacco e spuntato, pur se interpretato da attori validissimi e molto in voga al momento.

Anche se francese, ma interpretato da due attori che all’epoca erano “la meglio gioventù” del nostro cinema, ovvero Stefano Dionisi ed Enrico Lo Verso, mettiamo nel mucchio un bel film in costume, ovvero FARINELLI – VOCE REGINA, biopic dedicato all’ultimo grande “castrato” della storia della lirica. Pluricelebrato e pluripremiato, è in realtà un bel film e nient’altro, tra l’altro eccessivamente “melenso” in più di un passaggio. Sopravvalutato, ma all’epoca fece tanto parlare.
E dallo sfarzo, dai grandi incassi e dal tanto parlare di Farinelli, andiamo a precipizio nell’ultra nicchia, ovvero a IL SOGNO DELLA FARFALLA di Marco Bellocchio, piccolissimo, splendido film (quel giovedì sera, a Perugia, in sala a vederlo eravamo in sei) che racconta di un ragazzo chiuso nel suo mutismo, che riesce a usare la voce esclusivamente per recitare. Struggente apologo sull’incomunicabilità e sulla funzione salvifica dell’arte, mi fece scoprire il genio di Bellocchio. La settimana dopo vidi I pugni in tasca in VHS e la mia ribellione di diciassettenne esplose definitivamente.
Per la serie “oggetti misteriosi” COME DUE COCCODRILLI, film non complesso ma complicato, audace senza autocompiacimenti, affascinante pure se sostanzialmente irrisolto. Ne fui sedotto (nella solita sala perugina del giovedì sera eravamo in cinque) e ne parlai per diverso tempo. Poi ne persi le tracce, del film e del regista, tale Campiotti, salutato a Locarno come genio nascente e poi smarrito nel piattume dei film TV. Il produttore era invece Procacci, ai suoi esordi. Quando era davvero indipendente e osava davvero sperimentare.
Ma il vero grande film “indipendente” dell’anno fu indiscutibilmente LE BUTTANE di Aurelio Grimaldi. Lo andai a vedere perché Grimaldi lo conoscevo e lo apprezzavo come scrittore (era l’autore di Mery per sempre, vedi sopra), e questo film (uno dei suoi primi, il primo ad avere una eco di rilievo) era tratto da un suo bellissimo libro sospeso tra saggistica e romanzo. Film atroce nel senso più passionale del termine, girato con un bianco e nero disperato e disperante, interamente in siciliano stretto, volutamente (ed efficacemente) disturbante. Radicale e crudo, fu criticato per l’eccessiva durezza con cui rappresenta il mondo maledetto della prostituzione. Ancora oggi sono convinto che se si vuole parlare realisticamente e fuor di metafora di certi temi, la crudezza sia un dovere. Non preoccupiamoci quando l’estetica si incrudisce, ma quando si immiserisce. Oggi, tempi grami di miseria artistica, di film così ne avremmo un bisogno disperato. Da vedere e rivedere.

E andiamo a concludere con i migliori in assoluto.
Fu anche l’anno, il 1994, dell’esordio assoluto del grande Paolo Virzì.
Il battesimo del regista livornese avvenne con LA BELLA VITA, una storia all’apparenza piccola, che lo riguardava da vicino. Ovvero le vicende di un gruppo di operai delle acciaierie di Piombino, magistralmente interpretate da Claudio Bigagli, Sabrina Ferilli e Massimo Ghini, più una serie di “feticci” che torneranno continuamente nelle opere del regista. Ma proprio nella sua piccolezza, secondo il principio tolstojano del “parla del tuo minuscolo villaggio e avrai parlato del mondo intero”, il film finisce per essere apologo universale sui (pochi) splendori e sulle (tante) miserie della provincia, sulle tragedie silenziose dei sogni che si bruciano senza un perché, sullo sfondo di una classe operaia che tramonta e affoga in ingiustizie sempre più subdole. Proprio mentre la Toscana stava diventando insopportabile “toscanismo” della battuta e della “simpatia” a tutti i costi, nonché stereotipo del Chianti per inglesi ricchi e annoiati, Virzì ci sbatte in faccia quella vera, sudicia e sanguigna.
Uno dei film più belli dell’anno. E zitti tutti.
E nella rosa dei più belli dell’anno ci va pure, a pieno titolo, LAMERICA di Gianni Amelio. Visto a scuola, è tutto ciò che il neo-neorealismo di questi anni avrebbe voluto essere: severo, asciutto, impersonale sul modello letterario di Verga e su quello cinematografico di Rossellini, civile senza proclami ideologici. L’opera che affrontò senza fronzoli il fenomeno delle prima ondata migratoria in Italia, il dramma dell’esodo dall’Albania e, soprattutto, la doppia percezione: quella albanese dell’Italia e quella italiana (popolo di migranti improvvisamente costretto a trasformarsi in popolo accogliente) dell’Albania. Da rivedere almeno dieci volte, soprattutto oggi. Strepitosa l’interpretazione di Enrico Lo Verso, qui al suo top assoluto.
E tra i migliori mettiamo ovviamente UNA PURA FORMALITA’ di Giuseppe Tornatore. Dunque, nel regista siciliano vivono due personalità artistiche molto diverse che quasi mai si incontrano e si compenetrano: una legata alla sua terra, bruciante, sentimentale, struggente… un’altra kafkiana ed esistenzialista. Preferisco la prima, ma anche nella seconda Tornatore è riuscito a sfornare assoluti capolavori. Come Una pura formalità, dove un Gerard Depardieu a dir poco straordinario dà anima e corpo a un terrificante dramma dell’assurdo, un incubo tutto giocato su toni freddi e penombre, che da psicologico si ingigantisce assurgendo a denuncia universale dell’assurdità della legge e della violenza del potere. Da standing ovation.
Il lotto dei migliori lo chiudiamo con il film che quell’anno, da impenitente fan di Dylan Dog quale ero, aspettai con più ansia: DELLAMORTE DELLAMORE, tratto dal romanzo capolavoro di Tiziano Sclavi e diretto da Michele Soavi. I presupposti per il più cocente dei flop, c’erano davvero tutti: i quintali di aspettative, le migliaia di fan di Sclavi (me compreso) pronti a scatenare l’inferno per la più piccola profanazione all’arte del maestro, l’horror che in Italia era in caduta libera da oltre un decennio. E invece, pur con un budget molto piccolo, il film fu (ed è) bellissimo. Il romanzo di Sclavi è un capolavoro assoluto e inarrivabile, ma di quel libro il film riesce a conservare (e a restituire) l’apparente trasandatezza, l’essenzialità filosofica che è la sua grandezza, il senso di pietà nella celebrazione degli emarginati, degli ultimi, dei freaks come unici veri custodi dell’umanità. L’antimondo dei mostri come unico argine alla disumanizzazione spietata, alla ferocia televisiva e modaiola del mondo degli uomini. Con quelle spolverate devastanti di grottesco di cui solo Sclavi è capace. Atmosfere perfette, sequenze indimenticabili, un equilibrio meraviglioso senza la pretesa di strafare. Una lezione che poteva dare il via a un grande cinema di genere nostrano e che purtroppo nessuno ha saputo seguire. Ovvio che il protagonista fosse Rupert Everett, ma bravi anche tutti gli altri… il film è fatto talmente bene che pure Anna Falchi (no, non è una facile battuta, solo che la Falchi, bontà sua, non è un’attrice) risulta necessaria. Per una volta la sfida horror con gli americani, che quell’anno presentavano THE WOLF (che pure aveva Jack Nicholson) e IL SEME DELLA FOLLIA (che pure era di Carpenter, la vincemmo noi.

Però, al solito, ne dobbiamo scegliere uno solo. L’impresa sembrerebbe difficile in tutta questa abbondanza, e invece no, è semplicissimo.
Per il 1994, la scelta non può che cadere su IL POSTINO. Ben oltre il capolavoro, questo film sulla poesia è una poesia che si moltiplica, si dissolve e poi rinasce a ogni inquadratura. Struggente, intimo e universale, è uno dei film più importanti del decennio. Sussurrato eppure apocalittico, filosofico ma di una semplicità che spezza le gambe.
L’apice e la sintesi del genio assoluto di Massimo Troisi, senza dubbio il più grande tra gli “attori-autori” della sua generazione, spanne e spanne e spanne e poi ancora spanne sopra chiunque (anche sopra Roberto Benigni, tanto per essere chiari). Questo film è la sua anima, il suo respiro, la sua poetica che esplode nella più tragica e immensa delle bellezze.
Il fatto che sia stato anche il suo testamento spirituale, che lo abbia girato nel pieno di una malattia irreversibile e che sia morto prematuramente il giorno dopo la fine delle riprese, non è affatto il motivo del successo di questo film, né lo ha reso più bello.
Semmai, lo ha reso più insopportabile. Perché ci ha strappato via un poeta gigantesco lasciandoci con il rammarico di quanto e cosa avrebbe potuto darci il suo genio, all’epoca appena quarantenne.
Scandaloso che un film simile abbia ricevuto soltanto l’oscar per la colonna sonora, che non sia stata premiata la regia, la sceneggiatura, l’attore, il film… uno scandalo di cui ancora non mi do pace, perché la storia degli oscar è piena di decisioni incomprensibili e di premi negati. Ma gli autori cui la vittoria è stata sottratta hanno avuto il tempo di rifarsi.
Massimo, questo tempo non lo ha avuto.
Al cinema piansi a dirotto. Per il film.
Quando poi nei titoli di coda comparve la scritta AL NOSTRO AMICO MASSIMO piansi per lui.
Perché davvero tutti quanti, in quel 1994, perdemmo un grande amico.
Piango ancora oggi.
Ciao Massimo…

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