Quentin Tarantino – “Pulp Fiction”

Il mio (e forse anche nostro) 1994 al cinema parte seconda.
Dopo le pellicole italiane, passiamo a quelle internazionali. Con la medesima premessa: essendo stato il 1994 anno cinematograficamente intensissimo, il numero di film è di gran lunga superiore alla manciata. Ergo, i post in questione saranno inevitabilmente lunghi. I film internazionali sono davvero tanti, quindi in alcuni punti la rassegna sarà telegrafica, ma sempre un post lungo resta.
Conclusa la premessa/avvertimento, possiamo procedere. E se ancora non avete desistito, buona lettura!

E partiamo subito subitissimo col botto, visto che il 1994 fu un anno super in quanto a film d’autore indipendenti.
Anzitutto, Kiewslovski. Il grande regista polacco quell’anno, in piena trance creativa, fece uscire non uno, ma ben due film, ovvero gli altri due capitoli della “trilogia dei colori” ispirata alla bandiera francese. Così, dopo Film Blu, ecco FILM BIANCO e FILM ROSSO. Come il primo, non li vidi al cinema quell’anno, ma li scoprii il primo anno di università. Il primo divenne una specie di ossessione; Film Bianco invece, mi annoiò (e mi annoia ancora) mortalmente, pretenzioso e debole. Lo detesto particolarmente perché ai tempi, a lettere, era proibito parlare male di Kiewslovski, e se ci provavi le conseguenze potevano essere devastanti (ma questa è un’altra storia). L’ultimo capitolo, Film Rosso, sarebbe stato anche l’ultimo lavoro del Maestro. Film bello ma decisamente arduo, di quell’arduo che finisce per essere arido, quasi un teorema privo di anima. Insomma, non so se si è capito: Film Blu (così pure Il Decalogo) è tutta un’altra cosa.
Strepitoso (e per favore aiutatemi a dire strepitoso) fu invece PRIMA DELLA PIOGGIA del macedone Mancevski, giustamente premiato quell’anno a Venezia. Lo vidi al cinema per puro caso (quella sera, il solito giovedì perugino, doveva esserci un’altra pellicola, che per un disguido del distributore non era pervenuta in sala e allora proiettarono quella in programma la settimana dopo) e me ne innamorai perdutamente. Una regia che ha come base imprescindibile la nouvelle vague, che non si limita a riprodurla come un saggio di storia del cinema ma la reinventa, con soggettive libere indirette che diventano specchi dell’alienazione del nuovo mondo globalizzato e della disumanizzazione dei conflitti etnici che insanguinavano senza scampo l’est Europa. Narrazione non lineare e cronologia scombinata che cita Jarmush e anticipa (di pochissimo) Tarantino. Favoloso e, purtroppo, oggi mai riproposto e quasi introvabile.
Dall’estremo oriente arrivò l’ennesimo capolavoro di Zhang Ymou, VIVERE!. Solito impianto “epico” della narrazione, con una storia che abbraccia un arco cronologico da inizio secolo fino alla rivoluzione culturale e ha come centro il dissesto di una famiglia travolta dal vizio del gioco del padre. Quel “particolare”, quella microstoria che si fa macrostoria universale, apologo sul destino del singolo e dell’intera umanità con al centro la visione circolare (e religiosamente laica) della storia materiale. Leggermente più compiaciuto degli altri capolavori del regista, ma un film eccezionale che al cinema, ai titoli di codi, veniva voglia di applaudire e lanciare una standing ovation di tributo.
Ma il vero caso dell’anno, in quanto a cinema indipendente, fu senza dubbio LEON di Luc Besson. Talmente un caso da uscire immediatamente dal circuito underground per essere affidato alla grande distribuzione. Rarissimo caso di un puro film d’azione con una profondità psicologica e una cura dei personaggi incredibili, per una pellicola divertente, feroce quanto basta, piena di virtuosismi ma, clamorosamente, mai compiaciuta. Un equilibrio da applausi impreziosito da un Jean Reno strepitoso. Non il mio genere, ma davvero un bel film.
Se invece andiamo nel “mio”, ecco allora lo splendido (di nuovo, aiutatemi a dire splendido) LADYBIRD LADYBIRD del grande (ridaje, aiutatemi a dire grande) Ken Loach. Al cinema me lo persi ma lo vidi comunque entro l’anno, in un VHS pirata che acquistai a Roma Termini. Di solito questi VHS erano pacchi clamorosi (ne ho un paio senza audio, altri due o tre proprio senza nulla), questo qui invece, miracolosamente, era funzionante. E mi permise di vedere questa splendida storia d’amore tra una piccola proletaria londinese dal passato traumatico e un rifugiato politico paraguayano. Che sfocia, come sempre in Loach, nella più veemente denuncia delle più atroci ingiustizie. Una storia intima che, dalla porta di una casa di periferia, spalanca il lato più dannatamente criminale delle società capitaliste. Da vedere e rivedere e poi rivedere ancora. Straordinario, uno di quei film civili di cui oggi avremmo disperato bisogno.

Gli anni 90 erano iniziati con una massiccia produzione dei cosiddetti “erotici d’autore” (vedi puntate precedenti). Ovvero, film dalle pretese spropositate che poi, nel 99% dei casi si sono rivelati cagate mostruose e insostenibili. Nell’anno di grazia 1994 la profusione di siffatto genere pare subire un sacrosanto ridimensionamento, anche se le “indimenticabili stronzate” non mancano. Al primo posto IL DELTA DI VENERE, che in teoria sarebbe tratto dai racconti della grande Anais Nin, ma che in pratica è un pasticcio tra ridicolo involontario e pessima regia. Andammo al cinema cercando turbamenti per la nostra iperormonale adolescenza, finimmo a protestare come nell’incipit di Berlinguer ti voglio bene.
A pari merito nel festival dell’erotico soft totalmente ridicolo LA TETA Y LA LUNA di Bigas Luna. Che però fu un film importante: nonostante i critici lo avessero incensato, io avevo sempre pensato che il film precedente del regista spagnolo, ovvero Prosciutto Prosciutto, nonostante Anna Galiena in rosso che fa il numero del pappagallo mi avesse fritto il cervello, fosse una cagata mostruosa e lui, il Luna di cui sopra, un furbissimo incapace. Questa nuova puttanata me lo confermò fugando ogni dubbio residuo.
Uscendo dall’erotico soft, ma restando in ambito sessuale, ovvero il sesso come elemento centrale del plot, quell’anno andammo a vedere pure RIVELAZIONI, presentato come il film scandalo dell’anno (con la stessa tecnica con cui ci martellarono con Basic Instinct), tratto da un romanzo di Crichton, gioca a ribaltare i ruoli maschio/femmina nelle molestie sul luogo di lavoro. Tante pretese per un film con poche qualità. Forse nessuna.

Continuando per generi, c’era ovviamente l’horror a quei tempi, che ancora faceva appunto “genere” con tutto ciò che questo comportava (logiche di settore con i propri fan, i propri festival, le proprie riviste… ). Ne abbiamo già parlato nella prima parte: nel 1994 il film horror più bello, per una volta, fu italiano, ovvero Dellamorte Dellamore (vedi puntata precedente), nonostante dagli States fossero arrivati come al solito prodotti di tutto rispetto, tipo THE WOLF con Jack Nicholson e IL SEME DELLA FOLLIA di Carpenter (anche qui, vedi puntata precedente). Ma soprattutto il nuovo capitolo di NIGHTMARE (intitolato stavolta ULTIMO INCUBO). Ora voi direte facile vincere sull’ennesima stanca riproposizione del buon vecchio Freddie Krueger. Certo, c’era tutta una serie di persone che dell’uomo con gli artigli che entrava negli incubi degli adolescenti non ne poteva più. Io stesso gli ultimi due film prima di questo al cinema li avevo boicottati. Questo invece andai, perché dietro la macchina da presa tornava Sua Maestà Wes Craven, il regista, il padre del primo indimenticabile capitolo della saga. Questo nuovo Nightmare al primo non gli allacciava nemmeno le scarpe, però quando lì dietro c’era Wes era sempre una goduria!
E soprattutto uscì THE ADDICTION, horror vampiresco decisamente oltre qualsiasi stereotipo del genere, firmato dal grande Abel Ferrara, che con un bianco e nero che dire angosciante è dire poco ci racconta di una studentessa di filosofia attratta da un gruppo di succhiasangue fino a diventarne schiava. Girato con maestria unica, anche se il parallelismo con la tossicodipendenza è così scoperto da diventare didascalico.

Per la serie “film carini che proprio non ti aspettavi”, lo scettro del migliore dell’anno va a AMICI PER GIOCO, AMICI PER SESSO, il quale – complice la sciagurata traduzione italiana del titolo – pare la solita commediola americana adolescenziale e scimunita ambientata al college. E in parte lo è, nel senso che i protagonisti sono effettivamente adolescenti e siamo effettivamente al college. Ma c’è un piglio autoriale nello scriverlo e nel girarlo, una carica irresistibile di politicamente scorretto, una smania di libertà sessuale e sentimentale autentica che conquista. Io lo andai a vedere solo perché c’era Lara Flynn Boyle, la Dana di Twin Peaks che amavo disperatamente. Non fui per nulla deluso.
In cotanta abbondanza, nel 1994 ci fu pure una sequela di “papponi” più o meno insostenibili, cocenti delusioni che però furono presentati come film assolutamente da non perdere.
A partire da CRONISTI D’ASSALTO, che mi costrinsero a vedere perché parlava di giornalisti e allora non me lo potevo perdere. Nonostante un super cast (Robert Duvall e Glenn Cose su tutti) è arido e fasullo, noioso come poche al mondo. Il peggior film tra quelli diretti da Ron Howard.
A seguire FRANKENSTEIN DI MARY SHELLEY, che a partire dal titolo voleva riecheggiare il Dracula di Bram Stoker di due anni prima. Lo andammo a vedere, ricordo benissimo, pregni di aspettative. La delusione più gigantesca dell’anno: lento, fiacco, non restituisce una virgola dell’immensità dell’originale che vorrebbe ricreare. Uno spreco inutile e tanto rumore per nulla.
Deludentissimo anche il nuovo Altman, PRET A PORTER, inutile e vuota sfilata di star per un film difficilmente comprensibile (non nel senso che è difficile l’interpretazione, proprio non si capisce che senso abbia avuto girarlo), per non parlare dei polpettoni in piena regola: AMARSI, dove Andy Garcia e Meg Ryan, che pure sono grandi attori, recitano nella peggiore delle maniere un film che vorrebbe denunciare il dramma dell’alcolismo e finisce involontariamente nel ridicolo più assoluto; e VENTO DI PASSIONI, quasi quattro ore di un pastone romantico con pretese di grande affresco storico. Per fortuna quest’ultimo, non lo vidi al cinema e mi ci addormentai comodamente sul divano di casa. Terribile anche MAVERICK, trasposizione cinematografica di un telefilm per fortuna mai visto. Purtroppo invece il film lo vidi: brutta storia per la peggior interpretazione di sempre di Mel Gibson. Ma il premio film letale lo vince senza dubbio RAPA NUI, inutile fotografia di tre ore dell’isola di Pasqua. Con un video turistico promozionale, avrebbero risparmiato miliardi. Lo vidi all’arena estiva, pochi giorni dopo la sconfitta dell’Italia ai rigori contro il Brasile. Sicuramente il giramento di palle per i mondiali influì, ma il film fa cagare lo stesso.

Tornando sul pianeta dei bei film, ecco PALLOTTOLE SU BROADWAY, dove Woody Allen non è ancora tornato ai livelli dei suoi capolavori (gli strascichi della vicenda Mia Farrow sono ancora tangibili), ma è comunque una splendida commedia dal gran ritmo e piena di battute irresistibili.
E bello è anche LE ALI DELLA LIBERTA’, tratto da un racconto di Stephen King. Un film che cercai disperatamente e bucai continuamente, non riuscendo a vederlo al cinema. Un classico del genere “carcerario” intriso di oceani di salutare umanità. Tutti gli attori, in particolare Tim Robbins e Morgan Freeman, straordinari.
E ancora QUIZ SHOW, firmato da Robert Redford, severa e lucidissima denuncia del mondo televisivo tramite il racconto di uno scandalo che travolse l’America negli anni cinquanta.
Infine, nel settore film belli, mettiamo MISTER HULA HOP dei fratelli Coen, che in quel 1994 non solo non vidi al cinema, ma nemmeno mi accorsi che era uscito. Sarebbero passati diversi anni prima che scoprissi i “fratelli terribili” e di conseguenza anche questo film. Irresistibile affresco storico traboccante di citazioni e meravigliosa regia, con Tim Robbins e Paul Newman in stato di assoluta grazia.

Autentici “casi” dell’anno furono: 1) l’esplosione del fenomeno Jim Carrey, che con THE MASK si esibì in una prova d’attore straordinaria, degna di Jerry Lewis, che ci lasciò tutti a bocca aperta. Come spesso accade in questi casi, il successo planetario fece sì che l’attore venisse impiegato pressoché ovunque, compressi filmetti da due soldi. Come per l’appunto ACE VENTURA – L’ACCHIAPPA ANIMALI, film appunto da due soldi uscito quello stesso anno. Ma la grandezza di Carrey fu appunto quella di rendere divertente un film senza alcuna qualità (poi, con il tempo in questi film stupidotti iniziò ad annoiare pure Carrey, almeno fin quando qualcuno non si accorse che lo si poteva utilizzare anche in altri modi). 2) l’uscita del film IL CORVO; pellicola inevitabilmente (e giustamente) fumettistica, un gotico di maniera con una colonna sonora superlativa, bella scrittura con alcuni scivoloni incomprensibili nel più trito dei moralismi, Questo film divenne qualcosa di mitologico per la mia generazione, che lo imparò a memoria riciclandone le citazioni a ogni occasione buona. Un successo e una divinazione dovuti tutti alla morte assurda del protagonista Brandon Lee sul set; se non fosse accaduto, avremmo avuto semplicemente un buon film che più della metà di noi non avrebbero nemmeno visto. Ma siccome gli eroi son tutti giovani e belli, muore giovane chi è caro agli dei, e la mia generazione ha spesso trovato nella morte prematura l’unica traccia di eroico romanticismo in un mondo senza più ideali, i poster de Il Corvo devastarono per anni le nostri innocenti pareti.

E veniamo ai “botti” dell’anno, ovvero i film più belli, gli indimenticabili (per me ovviamente). In ordine crescente di gradimento (sempre per me).
Si parte con PRISCILLA LA REGINA DEL DESERTO, travolgente e irresistibile trionfo del kitsch più spinto, fu una specie di “pride” sullo schermo. Eletto manifesto gay dei primi 90, è soprattutto uno splendido film, divertentissimo, uno sberleffo coloratissimo e irriverente contro le idiozie e gli stereotipi di genere. Da vedere e rivedere al grido di “una risata vi seppellirà”.
A seguire QUATTRO MATRIMONI E UN FUNERALE, probabilmente una delle migliori “british comedy” della storia: una sceneggiatura PER-FET-TA (ragazzi che volete imparare a scrivere per il cinema, studiatevela, leggetela, imparatela a memoria), ritmo strepitoso, interpreti azzeccatissimi e tutti in forma straordinaria (Andie McDowell è da innamoramento istantaneo… ). Un meccanismo perfetto di battute irresistibili e sentimento che tocca il cuore. Lo ripropongono in tv così tante volte che ormai ha decisamente rotto le palle, ma resta comunque un capolavoro senza tempo.
E poi lo strepitoso PICCOLI OMICIDI TRA AMICI. Film d’esordio del grande Danny Boyle (che con Trainspotting sarebbe diventato ufficialmente un mito della nostra generazione), era esattamente ciò di cui avevamo bisogno: una iniezione di sana cattiveria. Travolti dal nulla ideologico che il destino anagrafico ci aveva costretti a vivere, intrisi di garbo e romanticismo, avevamo bisogno di cominciare a sputare un po’ di cinismo vagamente sanguinario. Boyle ce lo servì su un piatto d’argento, con una dark comedy meravigliosa e senza speranza, appena un gradino sotto le vertigini di Trainspotting, ma ugualmente strepitosa.
Gigantesco il biopic di Sua Maestà Tim Burton dedicato a quello che (con eccesso) viene ritenuto il peggior regista della storia del cinema: ED WOOD. Con un bianco e nero asciutto, dannatamente anni cinquanta, il grande Burton racconta una storia disperata e meravigliosa, terribile e dolcissima, spietata ed eroica. Un atto d’amore verso il cinema che è anche ossessione, malattia, show business che trangugia e divora. Con la sua inconfondibile sensibilità sognante e stralunata, Burton ci guida nella vita di questo geniale pazzo che si credeva un dio incompreso della macchina da presa e inseguì il suo sogno contro tutto e tutti, assistito da vecchie star in declino (il folle Bela Lugosi su tutti). Alla fine resta, come sempre nei film di Burton, il dubbio che sia stato solo un sogno. Ma non è forse questo labile confine tra sogno e realtà la quintessenza del cinema?
Poi, ovviamente, quel monumento che è NATURAL BORN KILLERS. Impossibile e irripetibile punto di equilibrio tra l’avantpop nero e surreale di Tarantino (che scrisse la sceneggiatura) e il bisogno di denuncia dura e rigorosa di Stone (che diresse il film). Capolavoro sincopato e disturbante, una serie di stili che corrispondono ad altrettante svolte sempre verso la strada che meno ti aspetti. E proprio quando stai alzando le mani, tutto convoglia magicamente verso un finale magistrale, dove anche se Stone non riesce (oh, è più forte di lui) a rinunciare a quel filo di retorica, tutto si compie e si giustifica. Umorismo disperatamente agghiacciante, denuncia senza ricorrere al documentarismo (ma anzi, condotta nell’eccesso calcolato, e stupendo, di meta narrazione), violenza che diverte e inquieta perché diverte. Spiega facendoti provare l’orrore sulla tua pelle. Chapeau.
E infine, CLERKS. Santiddio Clerks… Clerks… Clerks!!!! Geniale esplosione della cinematografia indipendente in tutto il suo splendore, dimostrazione concreta di come con due lire (il film costò effettivamente una cifra irrisoria, da banda di amatori) si possano comunque fare capolavori assoluti. Trama esile, praticamente inesistente (una giornata di due commessi con i negozi confinanti), per una indimenticabile galleria di personaggi, la poesia della miseria di periferia e la struggente banalità dell’essere umano. Ancora oggi, il dialogo sulla fellatio, resta un inarrivabile pezzo di bravura, semplicità disperante e grottesco quotidiano. Straordinario, punto.

Ma come sapete, c’è da sceglierne uno. E così come è stato per i film italiani, anche in questo caso il dubbio non esiste. Non posso che scegliere PULP FICTION, ovvero l’esplosione internazionale del genio immenso di Quentin Tarantino.
Non è semplicemente un film, Pulp Fiction, ma IL film, la pellicola che arriva dal cielo baciata dagli dei a reinventare il cinema proprio quando il cinema, a un tiro di schioppo dal festeggiare il suo primo centenario, sembrava non poter inventare più niente.
Proprio quando sembrava che il cinema potesse solo citare se stesso, ecco Tarantino ed ecco Pulp Fiction, dove genialmente la settima arte viene reinventata proprio in un diluvio di citazioni che lo riducono in cenere e che come un’araba fenice lo fanno rinascere in una veste tutta nuova.
John Travolta, indimenticabile protagonista, ne è il simbolo e la chiave di volta calcolata: riscoperto, ma imbolsito e col codino dei divi in caduta libera, deve rinascere nella citazione di se stesso, ballando nel più squallido dei localacci dove tutto è sosia e imitazione di epoche passate come lui, per poi uscirne con una puntura d’adrenalina nella più grottesca e tragica delle sequenze.
Annientati lo spazio ed il tempo, con interpreti favolosi (oltre Travolta, Uma Thurman, Bruce Willis, Jackson… ), una irriverente pietra miliare pop dopo cui il cinema non sarebbe più potuto essere lo stesso.
Ironico, buffonesco, tragico, un insieme di sequenze e inquadrature indimenticabili e da incorniciare. Che ancora oggi, alla duecentesima visione, non annoia e non sazia…
FANTASTICO

https://l.facebook.com/l.php?u=https%3A%2F%2Fwww.youtube.com%2Fwatch%3Fv%3DWSLMN6g_Od4%26fbclid%3DIwAR0VL5v1j5gzzadavZtvssEIizfcpIQ7Nz9pcJsasm9YmQb3uZtGos-d4wg&h=AT088ylsPsvqq-odwlVP-MlD-urO_g6ZAm29U_b2j4Z-lkiR-_WdalSLcOQq2yAUSHA0jcTNPSgJrJ1l-R5z7dg0S6N84z9LJvkJ5KzJpazPR5AM4cxuW_N4n99Z9jOd8XwcXS2G9X-W7PqQbmGzRT3-t2Q6SYIqc3E

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *