Egregio Ministro Bussetti…

Egregio Ministro Bussetti,
sono un insegnante di lettere della scuola secondaria superiore di secondo grado, e Le scrivo per raccontarle una storia che non ha niente di eccezionale o di sorprendente. Al contrario, è banale, scontata e ordinaria. E proprio per questo glie la racconto, perché uguale, o quanto meno simile, a quella di decine di migliaia di docenti e di centinaia di migliaia di studenti.
Ho una classe quinta – ventuno alunni, di questi tempi un numero “miracoloso” che permette quanto meno di lavorare in maniera umana – che seguo con piacere sin dalla terza.
Siccome sapevo che in questa scuola mi sarei finalmente fermato dopo anni di vagabondaggio (imposto prima dal precariato e poi dalla distanza da casa), mi sono trovato per la prima volta nella condizione di poter impostare il lavoro in nome di quella continuità didattica che tanto Lei quanto chiunque l’abbia preceduta in questo incarico, ha sbandierato come il vero e principale presupposto per una scuola funzionante.
Tra le altre cose, ho strutturato una parte consistente della programmazione come un graduale avvicinamento all’esame di Stato. In particolare, sin dai primissimi mesi della terza, ho dedicato ore settimanali a spiegare cosa fosse, e soprattutto come si scrivesse, un “saggio breve”, la tipologia più importante, complessa e caratterizzante della prima prova della maturità. Non è stato facile, non lo è stato per niente, specie considerando come Lettere non sia, nell’istituto dove insegno, una materia propriamente caratterizzante dell’indirizzo. Tanto a me quanto ai miei alunni, è costato tanta fatica, tanto lavoro e tanta, tantissima noia. Perché sì, spiegare le regole di composizione del saggio breve non è davvero la cosa più divertente del mondo.
Eppure, ce l’abbiamo fatta. Nel senso che i ragazzi, dopo vari tentativi e innumerevoli errori e aggiustamenti, avevano capito, sapevano esattamente come svolgere la tipologia e, alla fine della quarta (appena pochi mesi fa), avevano raggiunto un livello davvero alto. Per me senza dubbio un’enorme gratificazione, ma soprattutto per loro un’iniezione di fiducia gigantesca, una “botta” di autostima davvero incalcolabile. Quei casi esaltanti in cui si parte da zero e si arriva a dieci. E che finiscono per convincerti che stare sui banchi di scuola non sia una condanna a morte e che forse studiare possa davvero servire a migliorarsi.
Poi succede che a quinta già iniziata il Suo Ministero ci rovescia addosso questa riforma che, tra le tante novità improvvise e per nulla annunciate, cancella il saggio breve dalla prima prova, vanificando tutto il lavoro fatto in tre anni. Nella mia classe e in chissà quante altre quinte.
Ora io mi chiedo – e soprattutto Le chiedo – quale sia il senso di cambiare le regole – e cambiarle in maniera così profonda – in corso d’opera. Lasciando stare per un attimo il discorso tutto personale sul saggio breve, in generale io e tutti i miei colleghi, di qualsiasi disciplina, siamo stati invitati a preparare e far esercitare i ragazzi del triennio alle prove della maturità, ci fate adottare testi impostati su questo, che riportano simulazioni (tanto scritte quanto orali) per l’esame di Stato alla fine di ogni capitolo. Come si può anche solo pensare che sia corretto far sostenere un esame di Stato con criteri e modalità totalmente diversi da quelli su cui gli studenti sono stati invitati (e obbligati) a prepararsi per anni?
Sicuramente la scuola – e l’esame di Stato nello specifico – ha bisogno di una profonda revisione. Magari la Sua proposta (che io, mi permetta, non approvo minimamente, che vedo addirittura come peggiorativa in tutto e per tutto) risponde in pieno a questa esigenza e il tempo la consacrerà come quella svolta che il mondo dell’istruzione stava aspettando. Ma anziché fare queste corse assurde (con annesse inevitabili parentesi grottesche, goffe e tragicomiche) e costringere gli studenti a sostenere di fatto una prova così delicata “al buio”, non sarebbe più logico, sano e soprattutto più giusto rendere operativi i cambiamenti progettati nell’arco di due anni, ovvero per chi quest’anno frequenta la classe terza?
C’è una fretta, egregio Ministro, che davvero non si spiega, se non – a voler essere cattivi e maliziosi – con il fatto che la scuola – scalcinata, ammalata e dimenticata – sia il terreno ideale per piantare il prima possibile le bandierine politiche della “riforma eseguita”.
Ma ciò che in tutto questo “pasticciaccio brutto” resta più grave (e di cui la riforma pare proprio fregarsene) è che i nostri studenti ci guardano in attesa di risposte che non sapremo mai dargli. Il loro è uno sguardo che chiede un sacrosanto rispetto e che è giustamente arrabbiato. Con Lei, con noi, con tutti. Vogliono sapere che ne è di tutto quel lavoro. Che ne è di tutte le ore spese a esercitarsi sul saggio breve. Che ne è di quella competenza acquisita sul campo, che gli aveva dato fiducia e di cui adesso, improvvisamente, la scuola non ha più bisogno. Certo, magari qualcuno di loro, oggi o fra dieci anni, getterà il cuore al di là dell’ostacolo e capirà che aver imparato e padroneggiare quella particolare tecnica dello scrivere e quel particolare linguaggio, gli ha dato cose che vanno totalmente al di là di un voto e di un esame.
Magari andrà così.
Oggi però il messaggio che passa è che ottenere qualcosa con lo studio e con l’impegno, dopo averci dedicato anni e pazienza, è il più inutile degli sforzi. Che basta il colpo di spugna improvviso di una riforma inspiegabilmente frettolosa a cancellare un loro percorso. Che un esame di Stato tutto nuovo, nelle modalità, nei contenuti e nelle valutazioni, si può approntare e preparare in pochissimo tempo.
Che le vere virtù sono il non soffermarsi, il non aspettare, il non impegnarsi, il non faticare, il non pensare.
Il messaggio che oggi passa è che l’istruzione, quella vera, quella che trasmette passione e cultura, sapere e bellezza, ha perso. E che per l’ennesima volta ha vinto il mondo urlante e arrogante, quello che si permette di fare tutto vantandosi di non sapere niente.
Distinti saluti,
Riccardo Lestini

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