La meglio gioventù

Diciamo sempre “i giovani”.
Un’espressione onnicomprensiva con cui pretendiamo di connotare una intera generazione o, addirittura, un insieme di generazioni, tutti coloro che, al momento della tabella di turno, hanno un’età compresa tra i venti e i trentacinque anni. O giù di lì.
Ed è, di solito o quasi sempre, una connotazione in difetto, a volte canzonatoria e rancorosa, più spesso sprezzante e feroce. Negativa in ogni caso. I giovani “non” fanno questo, i giovani “non” fanno quest’altro, i giovani “non” sono così, i giovani “non” credono più in niente e “non” hanno più valori. Soprattutto, “non” sono più come quelli di una volta. Dove per “quelli di una volta” si intende un numero sterminato e potenzialmente infinito di generazioni, da quella immediatamente precedente fino a risalire a quelle dei secoli passati.

C’è molto più che un semplice errore in tutto questo. C’è cecità, cecità assoluta.
Perché non è che i giovani, oggi come ieri, non abbiano valori e via dicendo. Semplicemente ne hanno altri rispetto a chi, dieci, venti o trenta anni prima di loro ha avuto la loro età. Altri valori, altri codici comportamentali, altre gerarchie e priorità, soprattutto altri linguaggi. Linguaggi che spesso e volentieri, purtroppo, non abbiamo alcuna voglia di leggere e comprendere e che, per questo, sappiamo solo liquidare in disprezzo, negatività e superficialità, sperperando patrimoni (salvo poi rivalutarle in “musei del vintage” quando ormai è troppo tardi, quando quelle spinte propulsive e innovative si sono ormai esaurite e i giovani in questione sono diventati adulti).

Eppure, ogni “generazione” (per quanto significato possa avere questa parola a suo modo orrenda) ha, così come le sue miserie, i suoi splendori, tanto i suoi miti fasulli e sbagliati quanto le sue imprese memorabili. Le sue mediocrità e le sue eccellenze. Soprattutto, ogni generazione ha la sua “meglio gioventù” che, se la ascoltassimo, sarebbe in grado, se non proprio di cambiare il mondo, almeno di renderlo un posto più umano e più giusto in cui vivere.

Giulio Regeni, 28 anni, era prima di tutto questo, uno dei ragazzi di quella meglio gioventù dei giorni nostri con cui, troppo spesso, ci rifiutiamo di dialogare. Di cui troppo spesso ignoriamo la stessa esistenza.
Non mi interessa – o meglio non mi interessa oggi, adesso, mentre scrivo queste poche righe a loro modo soffertissime – indagare o provare anche solo a immaginare cosa sia realmente successo quel pomeriggio al Cairo, il perché e il per come Giulio sia stato fatto sparire, brutalmente torturato e ucciso.
Mi interessa solo che c’era una voce libera, curiosa, intelligente, assetata e innamorata di verità e che, oggi, non c’è più. Una voce che è stata messa per sempre a tacere da qualcosa di mostruoso che ci circonda, da un progetto lucido e spietato che della libertà e della verità ha ferocemente paura e che, con la stessa ferocia, risponde cancellandola dalla faccia della terra.

La morte tragica e assurda di Giulio, al di là delle implicazioni sociali e politiche che di sottende, chiama in causa anche (soprattutto?) altre questioni, altri interrogativi drammatici e urgenti, forse meno contingenti ma di certo più universali.
Scrivevo prima: righe soffertissime. Perché? Giulio è morto per aver chiesto e cercato “troppo”, per aver “troppo” seguito e inseguito la sua passione e il suo stesso essere.
Verrebbe voglia, in questo clima, in questa storia, in questo mondo, in questo terrore silenzioso con cui – in mille modi e con mille voci differenti – ci costringono a vivere, di chiudersi in casa, nel più assoluto silenzio, nascondere la testa sotto un cuscino di sabbia e non parlare più. Non parlare più per non rischiare più. E, nel silenzio, salvarci tutti quanti la vita.
Ma Giulio è morto per aver esercitato nel più ovvio dei modi il ruolo e il compito più naturali di ogni intellettuale che voglia dirsi tale: indagare, comprendere e commentare il mondo.
Giulio, morendo, ci ha ricordato cosa sia un intellettuale. Per questo la sua morte pone interrogativi anzitutto a noi intellettuali, al nostro ruolo nella società e nel mondo. E, perché tutto questo non sia accaduto invano, ci chiede di riprenderlo con forza quel ruolo, a tutti quanti, nessuno escluso. Ci obbliga a farlo, ad alzare ulteriormente il tiro, a moltiplicare gli interventi, a rafforzare la ricerca di verità e libertà.
Non solo. Ci chiede di non nascondere la faccia e di non voltarla dall’altra parte anche, e soprattutto, come adulti. Ci chiede, ancora e più di prima, di credere nei nostri ragazzi, nella nostra meglio gioventù, di spingerla a non chiudersi, a non aver paura, a uscire di casa sempre e comunque, a parlare, a gridare, a seguire sempre e comunque se stessi, i propri sogni, le proprie passioni, a innamorarsi della vita e non della sopravvivenza. A innamorarsi della verità e della libertà.

Scriveva Guccini, a proposito di un’altra morte precoce e assurda: “uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo, quasi un dovere”.
Versi che, credo, dicano molto più, e in maniera assai più incisiva, di centinaia di mie parole.

Un’ultima cosa, molto privata ma che, per una volta, ci tengo a rendere pubblica.
Questo piccolo articolo è dedicato ad Annalisa, cara amica d’infanzia e donna straordinaria che, in un pomeriggio piovoso, forse senza nemmeno volerlo, mi ha dato il coraggio di scrivere queste parole.

Riccardo Lestini

‪#‎resistenzeRiccardoLestini‬

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