Psicodramma ultimo atto

La fine dello psicodramma istituzionale è arrivata al giorno 88 di crisi, al termine di ore surreali in cui hanno convissuto ben tre governi: quello dimissionario di Gentiloni, da settimane con gli scatoloni in mano, quello congelato di Cottarelli, che in pochi minuti ha scatenato una tempesta ormonale femminile dando l’illusione di una prossima repubblica dell’amore, e quello prima autodistrutto e poi ripescato di Conte.
Alla fine, dopo un inverecondo ed estenuante balletto in cui quasi nessuno ha rinunciato a esibirsi, tra nevrosi e psicosi, grottesche minacce di impeachment affannosamente ritirate (vi immaginate Barbara Jordan che corre da Nixon a chiedere scusa?), un capo di stato passato in poche ore da nemico del popolo a salvatore della patria (manco fosse Balotelli agli europei), ipotesi di voto sotto l’ombrellone, inutili e letali benzine sul fuoco gettate dall’UE, piazze virtuali che fabbricano barricate di insulti su Facebook, il nuovo ministro degli interni che posta foto di migranti spennatori di piccioni con la didascalia “a casa!”, ripicche e bassi istinti vari ed eventuali, il perennemente annunciato governo gialloverde è diventato realtà.
A guadagnare terreno (e peso istituzionale e poltrone) è inevitabilmente la Lega, inarrestabile nei sondaggi, regina annunciata in un eventuale ritorno alle urne. Che però dopo averlo annunciato e minacciato a più riprese al grido “non siamo al mercato”, fatti due conti ha deciso di sconfessarlo. Palazzo Chigi, in fondo, val bene un Savona.
Quindi via all’esecutivo, con il 2 giugno che da guerra civile contro i poteri forti si è tramutato in scampagnata e passerella del neo governo.
Sulla carta di quella Terza Repubblica dei cittadini, di quella rivoluzione di sistema, di quella totale discontinuità annunciata, resta ben poco. Quanto meno nel metodo e nella composizione.
Ovviamente sparita la squadra di governo presentata prima delle elezioni da Di Maio, che almeno nella forma del nuovo che avanza doveva essere l’atto fondante. E quelli che fino all’altro ieri si chiamavano “trucchetti da prima repubblica”, schemi infetti da cui non si sarebbero mai lasciati contaminare, oggi diventano mosse indispensabili per la nascita del governo: astensioni per dare più solidità alla maggioranza, spostamento di un nome da un ministero all’altro. Fino a scoprire che il tanto vituperato “inciucio” altro non è che politica reale e materiale.
E anche in tante caselle chiave si trovano nomi che tanto nuovi non sono affatto: un ex ministro del “criminale” governo Monti, l’estensore del programma del “partito dei corrotti” Forza Italia all’economia, la pasionaria andreottiana alla pubblica amministrazione. Uno schema che polverizza in più passaggi la logica delle competenze e del “mai più un non eletto al governo” su cui si sono basate le rispettive campagne elettorali. Con tutto che la Lega si trova al governo per la quarta volta in ventiquattro anni, il partito che più ha governato tra tutti quelli esistenti.
Dal momento che le due forze in questione hanno nel culto dell’istante, del tutto e subito, della rivoluzione a priori, del cambiamento radicale in tempi brevissimi, della palingenesi continua i loro tratti distintivi, è inevitabile sottolineare tutte queste contraddizioni.
Per il resto saranno, come sempre, i fatti a parlare. E ci vorrà tempo (molto tempo) per capire e giudicare realmente quanto l’operato di questo governo sarà rivoluzionario o anche solo minimamente efficace.
Con il sacrosanto auspicio che almeno da qui ai prossimi mesi cessino gli isterismi, le urla, gli slogan, i cori dei tifosi e il continuo anteporre la logica della pancia a quella dell’intelligenza.

#specialeElezioni2018
#resistenzeRiccardoLestini

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