Cosa resterà di questa campagna elettorale

A pochi passi da casa mia, dove vado a buttare la spazzatura, davanti agli avveniristici bidoni interrati fiore all’occhiello della amministrazione Renzi per il decoro urbano, sono ancora in piedi gli spazi per i manifesti elettorali montati da operai assonnati nel gelo di gennaio.
Lasciati lì forse nel dubbio che si tornasse a votare o forse come monito, a ricordare che la campagna elettorale, in realtà, non finirà mai.
O più probabilmente dimenticati, come si dimenticano certi relitti inutili di un tempo passato e destinato a non tornare.
Di quella quarantina di spazi numerati, la maggior parte è infatti rimasta vuota e inutilizzata per mesi.
Oggi resistono, tristi stracciati e sbiaditi, i manifesti dei partiti minori, quelli che non sono nemmeno entrati in parlamento o ce l’hanno fatta per il rotto della cuffia. E, sicuramente non a caso, gli unici veramente attivi nell’attaccare i propri vessilli e riempire quegli spazi.
Davanti a vetro e plastica sventolano brandelli di Potere al Popolo, con una p in meno e un bianco ormai annerito, appena sotto si intravede uno straccio penzolante che un tempo fu il fiore petaloso della Lorenzin. Più avanti, verso l’indifferenziata, il nero scolorito di Forza Nuova e un frammento di Casa Pound su cui qualcuno ha disegnato una celtica ormai quasi del tutto cancellata dalla pioggia.
Ma quel che più colpisce è all’estremo opposto, tra l’umido e il raccoglitore della Caritas, dove campeggia il manifesto del Partito Comunista di Rizzo, identico a quello del PCI che fu, ostinatamente intero anche se il rosso si è fatto rosa, mentre proprio sotto resiste lo scudo crociato dell’UDC di Fitto.
A fermarsi lì davanti, specie in certe giornate dal cielo nuvoloso e luce piatta, sembra di essere in un brutto documentario sugli anni ’80, il mondo ancora diviso, l’eterna battaglia DC/PCI, le tribune politiche, i comizi in piazza, le macchine col megafono che chiamavano la cittadinanza a partecipare ai dibattiti.
Tempi da non rimpiangere di certo, ma dove la realtà aveva una sua consistenza materiale e l’espressione “metterci la faccia” conservava un significato letterale, corporeo e carnale.
I partiti maggiori, vincitori e sconfitti, in questi spazi sono stati quasi completamente assenti. Sono loro ad averli lasciati vuoti, in un sistema dove la soglia di sbarramento è stata anche (soprattutto?) discrimine invalicabile tra un antico irrimediabilmente anacronistico e un moderno immateriale, incorporeo e virtuale, dove la politica, quella importante che muove consensi, si fa altrove. In televisione certo (e regolarmente senza contraddittorio, perché anche parlarsi e dibattere è ormai fuori moda), ma soprattutto sul web, dove impera e trionfa la logica dell’eterno presente, dove tutto ciò che è destinato a durare e a essere rielaborato è totalmente inservibile. Dove oggi è il contrario di ieri ma non lo contraddice, semplicemente perché ieri non esiste. Dove ogni giorno inizia una nuova campagna elettorale, ugualmente vergine e ugualmente feroce, aperta all’alba dai medesimi strilli e chiusi al tramonto dagli stessi fuochi d’artificio.
Dove tutto il passato, recente o remoto che sia, si cancella e si annienta, inabissandosi come i rifiuti di quei cassonetti interrati.
Siamo qualcosa che non resta e frasi vuote nella testa, cantava Guccini.
E senza più nemmeno “un cuore di simboli pieno”.

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