Niente di nuovo sul fronte parlamentare

Come ampiamente prevedibile (ed effettivamente previsto), nulla di fatto.
Perciò, altro giro altra corsa.
Altro giro che però non sembra poter essere tanto diverso dal primo. Né, soprattutto, pare esserci la volontà affinché questo accada.
Più o meno tutti continuano da giorni, o meglio da settimane, a parlare di incontri, vertici, trattative, convergenze, contratti di governo, a chiamare in causa sostegni che non si capisce davvero da dove possano arrivare, visto che non siamo nel 2006, in parlamento non ci sono venti partiti, le forze in campo sono veramente poche e quelle realmente influenti ancora meno, e se i veti incrociati, come pare, restano tali e insormontabili, non c’è altro scenario che non sia lo stallo e la paralisi totali. Il gioco degli incastri e dei puzzle possibili è stato fatto e disfatto mille volte, continuando a dare lo stesso responso già emesso l’indomani delle elezioni: non è possibile formare un governo.
Nel dettaglio:

1.Il PD è uscito dalle consultazioni ribadendo e rafforzando la sua indisponibilità a qualsiasi convergenza e la propria volontà di rimanere all’opposizione, lasciando oneri e onori della formazione del governo ai vincitori delle urne.
Sotto l’ufficialità delle dichiarazioni, tuttavia, continua a consumarsi lo psicodramma di un partito perennemente tormentato da divisioni interne e ancora alla disperata ricerca di una propria identità.
Nello specifico, una parte consistente e importante del partito (con in testa la corrente guidata dal ministro Franceschini) spinge, e non poco, per aprire un fronte di trattativa con il Movimento Cinquestelle. Una linea che pare trovare, anche se non proprio il consenso incondizionato, quanto meno la disponibilità a intavolare una discussione delle minoranze uscite dalle ultime primarie (Orlando ed Emiliano) e del segretario reggente Martina. Ma a rendere nulle queste aperture resta il fatto che tutta l’area renziana, quella che può contare sul gruppo più nutrito di parlamentari, continua a rimanere assolutamente irremovibile circa l’indisponibilità a entrare in qualsiasi esecutivo.
L’impressione è che, allo stato dei fatti, il rischio implosione del Partito Democratico ci sia in entrambi i casi: l’Aventino rischia di condannarlo all’ininfluenza perpetua e a sparire progressivamente dallo scenario politico che conta, mentre il sostegno ai Cinquestelle rischia di risucchiarlo e di annullarne definitivamente l’identità all’ombra di un partito al momento troppo più forte, definito e con un consenso infinitamente maggiore. Perché il problema del PD, al di là della solita e logorante guerra fratricida tra correnti, al di là dei giochi personalistici o meno dell’ex (ex?) segretario Matteo Renzi, resta proprio quello dell’identità e della direzione.
Ovvero: che cos’è il PD? Qual è il vero ruolo di Matteo Renzi? Se le sue dimissioni sono reali ed effettive perché non si fa definitivamente da parte anziché continuare ad esercitare un controllo assolutamente paralizzante (non tanto per il governo futuro, quanto proprio per la sopravvivenza del partito) su un gruppo di parlamentari che continua a rivendicare come suo? Quanto conta Martina? E le minoranze, esattamente, che peso decisionale hanno?
Domande senza risposta. E, inevitabilmente, risposte mancate che bloccano qualsiasi azione, sia direttamente dal partito sia di chi vorrebbe dialogare con esso.
Se non si dovesse sbloccare la trattativa tra Cinquestelle e centrodestra, e di conseguenza il PD divenisse indispensabile per la formazione di un esecutivo, difficilmente succederà qualcosa prima del 21 aprile, quando il congresso del partito deciderà finalmente cosa fare del suo futuro, se eleggere un nuovo segretario o demandare ogni cosa a nuove primarie da fissare in un futuro al momento indefinito.

2.Continua la danza del centrodestra, da settimane un giorno sull’orlo della scissione e il giorno dopo più compatto che mai. Oggi come oggi, tuttavia, il “ricompattamento” e l’unità della coalizione sembrano definitivamente ritrovati, al punto che i tre partiti si presenteranno al secondo giro di consultazioni in un’unica delegazione.
Una mossa dai significati molteplici. Anzitutto, una forte e immediata risposta a Di Maio che aveva dichiarato di non riconoscere politicamente la coalizione. Ma anche (forse soprattutto) la possibilità di essere ricevuti per ultimi, essendo – uniti – la forza che ha ricevuto più voti, e in virtù di questo poter “giocare” conoscendo già mosse e dichiarazioni degli altri. Nonché, togliere – o almeno provare a farlo – il pallino ai Cinquestelle e tentare di dettare le regole per la formazione del governo.
Ma è proprio questo totale e all’apparenza granitico ricompattamento a dare la mazzata definitiva alla possibilità di avere un governo in tempi brevi.
I Cinquestelle si dichiarano disponibili ad aprire un fronte di trattativa con la sola Lega. Il che è ovvio e logico: con davanti tutto il centrodestra, andrebbero automaticamente in minoranza, mentre con il solo carroccio potrebbero dettare legge in virtù di un numero di voti praticamente nulli.
Ma benché prima della pausa pasquale l’ipotesi di un governo Lega-Cinquestelle sembrasse a un passo dal realizzarsi, Salvini ha risposto picche. Anche qui, ovvio e logico: perché il segretario della Lega dovrebbe portare in dote il suo 17% al Movimento quando può essere leader unico di una coalizione al 37%?
La proposta di Salvini, di nuovo ovviamente e logicamente, è quella di un governo comprendente l’intero centrodestra e i Cinquestelle (con all’opposizione il solo PD). Salvo sorprese, un progetto inverosimile, visto il niet assoluto del Movimento a formare un governo che comprenda Forza Italia e Silvio Berlusconi.
Un veto incrociato che annulla ogni ipotesi e, come in un eterno giorno della marmotta, riporta continuamente alla situazione di partenza. Con tutto che il dialogo a distanza tra Di Maio e Salvini, da normale incontro/scontro tra due leader, rischia di diventare un’autentica (ed ennesima) pagliacciata all’italiana, con un botta e risposta che scende progressivamente di tono fino a trasformarsi in trita caciara da social (“C’è il 51% di possibilità che Movimento e centrodestra trovino un accordo”, dice Salvini; “No, ci sono zero possibilità”, replica Di Maio; “Mi interessi meno di zero”, chiude il segretario leghista).
Un discorso a parte la figura di Silvio Berlusconi. Che il vecchio patriarca sia l’unico e solo leader e padrone di Forza Italia è noto e risaputo. E, vista la storia di quel partito, anche normale. Meno normale, anzi per niente normale, è che Berlusconi, condannato in via definitiva, interdetto dall’attività politica, si presenti alle consultazioni al Quirinale. Si può pensare che il provvedimento sia ingiusto, che sia un complotto, che il cavaliere sia il più grande perseguitato della storia.
Resta il fatto che la condanna c’è, è definitiva ed effettiva. E che in nessun paese normale sarebbe mai potuta succedere una cosa simile.

3.Nel bene e nel male, Salvini si dimostra più ‘politico’ di Di Maio. Quando parla di governo centrodestra-Cinquestelle non candida sé stesso come premier, ma presuppone un passo indietro di tutti e l’individuazione di un presidente del consiglio “terzo”, ovvero un’alta figura istituzionale non troppo politica e su cui possano convergere tutte le forze.
Opposto il comportamento dei Cinquestelle. Su questa sponda si continua a registrare l’indisponibilità assoluta a fare passi indietro di sorta. Tradotto, l’unica condizione per un nascituro governo è che sia a guida Cinquestelle e che il premier sia Luigi Di Maio. Il tutto in virtù del rispetto del voto degli elettori: una figura terza non sarebbe legittimata dalle urne, mentre Di Maio, in sostanza, è l’unico ‘premier in pectore’ ad aver ricevuto qualcosa come undici milioni di voti.
Il che in teoria non farebbe una piega. Se non che in un sistema proporzionale non esistono di fatto candidati premier, e di conseguenza politicamente è un discorso privo di reale valore.
Ad ogni modo, se perfettamente comprensibile è la volontà del Movimento di condurre il gioco e di imporre il proprio capo politico alla guida del paese (così come comprensibili possono essere i veti messi su Forza Italia e sulla figura di Berlusconi), molto meno logica appare la strategia del “doppio fronte” di trattativa. Ovvero la disponibilità a formare un governo, indistintamente, o con la Lega o con il PD.
Poco logico anzitutto da un punto di vista numerico: più stabile un ipotetico governo con la Lega, assai più incerto e traballante un esecutivo con il PD. Ma soprattutto, poco comprensibile da un’ottica meramente politica: come è possibile mettere sullo stesso piano due possibili alleati così antitetici come Lega e PD? Da un lato, considerandoli equivalenti, si mortificano e si svalutano entrambi rendendo ancora più difficili possibili trattative. Ma soprattutto è ovvio che nell’uno o nell’altro caso si darebbe vita a due esecutivi completamente diversi: da un lato c’è il PD, lo ius soli, l’apertura sul reddito di inclusione, dall’altro c’è la Lega, la tolleranza zero e i muri, la flat tax al 15%. Considerarli sullo stesso piano, equivale a dichiarare, di fatto, di non avere né priorità né, soprattutto, una vera e propria linea politica.
Infine, da un sondaggio di Demopolis pubblicato due giorni fa su “Repubblica”, emerge chiaramente come la base elettorale dei Cinquestelle preferirebbe ampiamente un asse con la Lega piuttosto che una convergenza del PD. Mi pare abbastanza ovvio. Anche se i flussi elettorali dimostrano che la maggioranza dei voti pentastellati provengono dal centrosinistra, chi ha votato Cinquestelle ha votato anche contro un establishmente che il partito del Nazareno ha rappresentato in pieno negli ultimi cinque anni. E chi ha votato contro il PD, come può accettare di vedere quel partito, appena sbattuto fuori dalla porta, rientrare dalla finestra?

In conclusione, non sembra proprio che il secondo giro di consultazioni, in programma alla fine di questa settimana, possa produrre una “fumata bianca” o anche solo una qualche novità.
Ma se tutti i partiti anche questa volta dovessero restare fermi sulle proprie posizioni, la strategia di Mattarella, finora molto discreta, attendista e rispettosa dei travagli interni ed esterni delle forze politiche, cambierà necessariamente. In un modo che in questo momento è però davvero impossibile prevedere.
Il primo maggio scade l’ultima finestra tecnica per riportare il paese immediatamente alle urne.
Considerando che oggi è il 9 aprile, anche l’ipotesi dell’istantaneo ritorno al voto risulta poco praticabile. Con la conseguenza che urge una soluzione. Quale poi possa essere, continua a essere un autentico mistero.

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#resistenzeRiccardoLestini

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