L’uragano – stravincono Cinquestelle e Lega, cancellata la sinistra (e il governo può attendere)

Mentre scrivo lo spoglio delle schede è ancora in corso, e per capire la reale distribuzione dei seggi tra quota uninominale e quota proporzionale – e quindi i numeri effettivi che andranno a comporre il futuro parlamento – dovremo attendere ancora molte ore.
A mancare non sono quindi semplici dettagli, ma dati decisivi per capire (o provare a farlo) se, e soprattutto come, potrà comporsi uno schieramento di governo.
Nonostante questo, in termini generali, i risultati appaiono assolutamente netti e inequivocabili sin dalle prime proiezioni di ieri attorno alla mezzanotte.
E sono risultati che stravolgono e ridisegnano completamente il quadro della politica italiana, i suoi rapporti di forza e le sue gerarchie. Uno spartiacque assoluto tra un prima e un dopo che frantuma i partiti tradizionali e che, forse, inaugura definitivamente un nuovo modo di fare e di intendere la politica.
Che il tutto fosse nell’aria è indubbio.
Ma numeri del genere, vittorie così clamorose e altrettanto clamorose sconfitte, restano comunque una sorpresa. Che, appunto, ha il sapore di un uragano.

Nel dettaglio:

1.Quella del Movimento Cinquestelle (attorno al 32% tanto alla Camera quanto al Senato) è molto più che una vittoria. Non tanto (o almeno non solo) per i numeri raggiunti, quanto per i rapporti di forza che queste cifre vanno a stabilire con le altre forze politiche: oltre tredici punti di distacco sul PD, quattordici sulla Lega e Forza Italia più che doppiata. Molto più che una voragine, molto più che un abisso. Che fosse il primo partito lo si sapeva già. Con questi numeri e queste distanze, molto meno. Se poi ragioniamo in termini assoluti e pensiamo che fino a pochi anni fa questa forza politica non esisteva, le proporzioni di questo successo hanno dell’incredibile. Nemmeno Forza Italia dei tempi migliori (che pure fu un partito che dal nulla si impose come prima forza politica del paese), da sola, riuscì ad avvicinarsi minimamente a simili percentuali. Negli anni a venire – e qui parlo da storico – tutto questo andrà studiato e molto seriamente.
Tornando al voto di ieri, un simile successo non può essere spiegato (e ridotto) soltanto come “voto di protesta”. Ovvio che nell’escalation del Movimento il malcontento e le politiche fallimentari dei partiti tradizionali hanno un peso determinante, ma non bastano e non possono bastare a spiegarne il successo. Il Movimento Cinquestelle (stra)vince dopo cinque anni fatti non solo di opposizione, ma anche di amministrazioni in centri determinanti (Roma e Torino su tutti, ma non solo), di lenta ma inesorabile trasformazione da forza di rottura a schieramento di governo. In sostanza vince grazie anche, e soprattutto, a una campagna elettorale indovinata, a suo modo perfetta, dove nonostante la lunghezza estenuante ha saputo evitare il logoramento e ha saputo parlare alla gente intercettandone bisogni e aspettative.
Tuttavia, un paradosso elettorale (viene da chiedersi cosa sarebbe successo se fosse passato l’Italicum, una legge elettorale che, col senno di poi, appare tagliata su misura per un successo Cinquestelle) fa sì che mentre il Movimento sia indiscutibilmente primo partito, non solo non abbia i numeri per governare da solo e senza appoggi, ma che venga sopravanzato (di oltre quattro punti) dalla coalizione di centrodestra.
A chi il presidente Mattarella deciderà di affidare l’incarico, se al Movimento o al centrodestra, lo sapremo solo nei prossimi giorni. Certo è che nessuno, a partire dal presidente della Repubblica, potrà ignorare un partito con oltre il 32% dei consensi. A questo proposito qualcuno ieri ha ricordato come anche il PCI che fu aveva numeri simili e puntualmente veniva estromesso dal governo. Ma allora c’era una DC ancora più forte e soprattutto c’era una logica internazionale fondata proprio sulla messa in scacco del PCI. Il Movimento Cinquestelle oggi si confronta con una coalizione di centrodestra che complessivamente ha sì preso più voti, ma la cui tenuta è tutt’altro che scontata.

2.Altra vincitrice assoluta della tornata elettorale è la Lega di Salvini, che trionfa sotto ogni punto di vista. Vince in termini assoluti, ottenendo oltre il quadruplo dei voti rispetto al 2013 e affermandosi come terza forza del paese a un soffio dal Partito Democratico. Ma vince anche, forse soprattutto, la competizione interna con Forza Italia. Gli ultimi sondaggi prevedevano un testa a testa prefigurando addirittura un lieve vantaggio del partito di Berlusconi. A sorpresa, previsioni nettamente smentite, con la Lega con un vantaggio di quasi quattro punti. Anche in questo caso, il voto di protesta ha avuto il suo peso, ma non c’è stato solo quello. Efficacissimo nel parlare alla pancia degli italiani, nel gettare litri di benzina sul fuoco delle paure più irrazionali e nello sfruttare al massimo il nuovo principale teatro mediatico della scena politica, ovvero i social, Salvini è riuscito a vincere e a ottenere consensi in regioni non solo storicamente di sinistra, ma dove la Lega fino a pochissimi anni fa era pressoché inesistente. Con una strategia furba e sottovalutata dai più (in primis dai suoi stessi alleati) ha riciclato nel centrosud come leghisti intere schiere di ex forzisti già radicatissimi nei territori, riuscendo a fare bottino pieno. Una nuova rivoluzione, impensabile fino a poco tempo fa, fa sì che per la prima volta in venticinque anni Berlusconi non sia più la forza trainante del centrodestra.
Un risultato clamoroso che però al momento (aspettiamo ancora i dati definitivi sui seggi) non pare tradursi nella possibilità di formare autonomamente un governo. Alla grande vittoria leghista fanno infatti da contraltare i risultati abbastanza modesti degli alleati. Molto deludente il risultato di Forza Italia, travolta anch’essa – al pari del PD – da quello tsunami che ha frantumato i partiti tradizionali, e che – a differenza del partito di Matteo Renzi – resta a galla solo in virtù dell’alleanza con la Lega. Non sfonda Fratelli d’Italia, ferma a un 4% leggermente al di sotto delle aspettative della vigilia.
Così, come ampiamente previsto e annunciato, la coalizione di centrodestra, a conti fatti, si trova davanti a tutti, ma con un risultato complessiva (poco sopra il 37%) che la tiene al di sotto della soglia di maggioranza tanto alla camera quanto al senato.

3.Storica è anche la sconfitta della sinistra. O meglio, per essere più precisi, delle sinistre.
Il Partito Democratico non ha solo ottenuto il peggior risultato dalla sua fondazione, ma il punto più basso in assoluto della storia della sinistra dal dopoguerra a oggi.
Per spiegare una notte così buia non basta Matteo Renzi, il suo personalismo esasperato e così lontano e così inviso alla cultura di sinistra, il suicidio politico del 4 dicembre, la sua condotta accentratrice e leaderistica. C’è molto, molto di più.
C’è la parabola di un partito, il PD, che in dieci anni di storia non è stato mai realmente in grado di darsi un’identità né di elaborare proposte chiare e realmente innovative, perennemente in affanno tra rincorse, brutte copie, indecisioni e retaggi del passato goffamente esposti come pezzi da museo. Una storia di involuzione e confusione continue di cui Renzi, il job act e la Buona Scuola non sono la causa, ma l’effetto.
Il PD paga il suo non essere più di sinistra, si dice continuamente, e da molto tempo, da più parti. Il che senza dubbio è vero, verissimo, ma se il problema fosse solo o soprattutto questo, i tentativi di ricreare e rifondare qualcosa a sinistra del PD avrebbero avuto storia diversa. In questo senso il risultato molto più che misero e fallimentare di Liberi E Uguali, una forza nata proprio sul presupposto di ritrovare una vera identità di sinistra, è assolutamente sconcertante. Un partito nato con ben altre ambizioni, un’aggregazione composita che andava dai fuoriusciti dal PD a Fratoianni, porta a casa poco più del 3%, rischiando di rimanere fuori dal parlamento e condannandosi in ogni caso a non avere alcun peso.
Anche sommando i voti del PD con quelli di LeU si rimane ben lontani da quelli ottenuti dal solo PD di Bersani nel 2013.
Il cartello “Potere al popolo”, ovvero la sinistra – chiamiamola così – più “radicale”, si attesta invece poco sopra l’1%. Ovvio che per una forza nata da appena tre mesi, totalmente priva di finanziamenti e spazi televisivi, retta quasi esclusivamente sul passaparola on line, superare l’1% sia un risultato a suo modo importante e insperato. Ma è pur sempre meno della metà di quanto cinque anni fa prese il cartello della sinistra radicale “Rivoluzione civile” guidato da Ingroia. Le scene di giubilo e festa dei militanti in collegamento con Mentana nella notte, sono apparse quasi surreali.
Non è quindi un astratto “bisogno di sinistra” la causa di una simile debacle. Se a dimezzare i suoi consensi è sia un centrosinistra che di sinistra ha ben poco, sia una sinistra riformista, sia una sinistra radicale, il problema è la sinistra in quanto tale.
Una sinistra che nei suoi continui tentativi (quasi sempre fallimentari) di rifondarsi e ritrovarsi, non ha saputo mai minimamente rinnovarsi, mai radicarsi nel presente e mai elaborare un vero progetto per il futuro. Involuta e ripiegata su sé stessa, trincerata dietro valori astratti che non ha mai saputo tradurre in qualcosa di concreto. Soprattutto, non ha più saputo parlare con la gente. E la gente l’ha abbandonata. Stavolta definitivamente.
E non saranno le dimissioni vere o presunte di questo o quel segretario, né l’ennesimo cambio di nome o posizionamento a questo o quel partito, a salvarla e a farle cambiare rotta. Ma il ripartire veramente da zero e veramente dal basso, nel mondo reale, con la consapevolezza di dover scrivere una storia completamente nuova.

#specialeElezioni2018
#resistenzeRiccardoLestini

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