Italioti (due parole a proposito di Dario Fo)

Fa quasi (quasi, è bene sottolinearlo) sorridere: la maggior parte di quelli che, ricordandosi improvvisamente della sua esistenza nel giorno della sua morte, si sono eretti a detrattori di Dario Fo, smontandolo, criticandolo e, in alcuni casi, offendendolo, sono gli stessi che, in altre occasioni e per altre questioni, pretenderebbero, da tutti e a prescindere, la difesa dell’Italia, della sua bandiera, della sua cultura.

Fa davvero quasi (ripeto, il quasi è obbligatorio) sorridere. Perché se non si esita a mettere l’Italia e gli italiani prima di ogni altra cosa (che si parli di pizza o di marò, di calcio o di esercito), non si capisce perché non si dovrebbe riconoscere – al di là del sacrosanto gusto e dell’altrettanto sacrosanto giudizio soggettivo – non dico la grandezza, ma quanto meno l’importanza di un personaggio come Dario Fo.

Non si capisce davvero lo stupore, la sorpresa, l’incredulità e ancor meno l’accanimento verso l’istituzionalità che è stata data ai suoi funerali, al suo ricordo, alla sua commemorazione.

Perché, sempre restando sul piano oggettivo, al di là del legittimo pensare e sentire di ognuno di noi, non stiamo parlando semplicemente di un artista.

Parliamo di un Premio Nobel, onore che nella lunga storia di questo altissimo riconoscimento internazionale è toccato, in campo letterario, soltanto a sei italiani.

Parliamo quindi di un intellettuale che ha contribuito in maniera gigantesca e incalcolabile a portare l’Italia e la cultura italiana nel mondo.

Perché è così difficile riconoscerlo?

Per le sue idee politiche così radicali? Per la sua militanza così incessante? Perché tali idee e tale militanza dividono e non uniscono?

Ma è la figura dell’intellettuale e dell’artista in quanto tale a essere radicale, militante, a dividere.

La militanza continua, l’estremismo interventista e guerrafondaio, il radicalismo antidemocratico di Gabriele D’Annunzio non ci impedisce certo di riconoscerne l’assoluto e indiscutibile genio poetico, l’adesione – che contrariamente a quanto ci piace credere fu convinta e non casuale – di Pirandello al fascismo non sposta di una virgola la grandezza dell’intellettuale siciliano.

Oppure si contesta, nel caso di Fo, che un attore non dovrebbe essere insignito di un Nobel?

Ma dimentichiamo che Fo non ha vinto il Nobel come attore ma – né più né meno come Pirandello – in qualità di autore, di drammaturgo. E soprattutto che Fo, ben prima del Nobel, era l’autore italiano più replicato e rappresentato nel mondo. Quasi per niente in Italia (chi si ricorda, prima del 1997, messe in scena di testi di Fo che non fossero allestite da Fo stesso?), ma nel mondo, sia lui sia Franca Rame, erano celeberrimi più come autori che come attori.

E il perché di questo successo enorme e clamoroso, per lunghissimo tempo ignorato dall’Italia e dagli italiani, è tutto nella motivazione con cui l’Accademia di Svezia gli conferì il premio Nobel: non solo per quel capolavoro incredibile, insuperato e insuperabile che è stato “Mistero Buffo”, non solo per la pazzesca e geniale re-invenzione della lingua franca dei giullari (che già da soli avrebbero giustificato il premio), ma anche – e soprattutto – perché la scrittura di Fo, la sua tecnica drammaturgica, è stata il più compiuto (e forse unico) esempio contemporaneo della grande tradizione italiana della Commedia dell’Arte, l’unica scrittura teatrale contemporanea capace di innovare pur conservando e tramandando l’essenza di quel teatro italiano che ha fatto scuola nel mondo e che ha reso, per secoli, l’Italia patria elettiva della drammaturgia e dell’arte del palcoscenico.

Tutte questioni che con la bandiera politica hanno davvero ben poco a che fare.

Non qui da noi, non in Italia, dove evidentemente tutto diventa bandiera, tutto diventa logica di opposte tifoserie, dove non si può parlare di premi, successi, commemorazioni per un artista importante come Fo senza tirare in ballo il “complotto comunista.

Sì, fa davvero quasi sorridere (per l’ultima volta, il quasi è indispensabile) tutto questo.

Soprattutto perché la maggior parte di coloro che alimentano la polemica, solitamente se ne sbatte beatamente di arte e cultura e ancor più solitamente e ancor più beatamente se ne sbatte di premi Nobel.

E se il Nobel lo vince la bielorussa Aleksievic, il francese Modiano, la canadese Munro o il cinese Mo Yan, nemmeno se ne accorge e va bene, benissimo che nessun italiano lo vinca.

Se invece lo vince un italiano invece, è talmente patriottica che di colpo inizia magicamente a interessarsene.

Quel patriottismo che prevede di interessarsi ai successi italiani per distruggerli, secondo quella logica dove si gode solo se i nostri perdono, dove se deve vincere uno è meglio non vinca nessuno.

E poi ti vengono a parlare di difesa delle radici e della cultura italiana…

Eh, l’Italia…

#resistenzeRiccardoLestini

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