Pentiti e pentitismo (una strana storia italiana)

Quella dei pentiti, in Italia, è una storia molto lunga e molto complicata.
Usato, come più o meno ovunque nel mondo, fin dalla notte dei tempi in maniera, diciamo così, “ufficiosa”, fu il generale Dalla Chiesa, a metà degli anni ’70, nel pieno degli anni di piombo e nel pieno dell’emergenza terrorismo, a istituzionalizzare e rendere legge nel nostro paese il “pentitismo”, ovvero l’offerta di protezione e di uno sconto di pena per coloro che avessero deciso di collaborare con la giustizia. Un sistema che da allora e fino ai nostri giorni, è stato usato costantemente e sistematicamente nella lotta all’eversione e alla criminalità organizzata. Al punto (a quanto mi risulta caso unico nel mondo) di inventare, e istituzionalizzare, a metà degli anni ’80, una figura ibrida e intermedia di pentito: il “dissociato”, vale a dire colui che racconta i fatti senza fare i nomi delle persone coinvolte. Una legge creata appositamente per spingere a parlare due ex brigatisti, Valerio Morucci e Adriana Faranda, i due celebri “postini” delle Brigate Rosse durante i drammatici 55 giorni del sequestro Moro.
Per quanto resista qualcosa in me che mi impedisce di accettare fino in fondo il ricorso alla delazione come strumento privilegiato della legalità, riconosco come sia stato, ed è tuttora, un mezzo assolutamente indispensabile, probabilmente l’unico davvero percorribile ed efficace: senza pentiti e pentitismo, tanto per fare un esempio su tutti, probabilmente non saremmo mai venuti a conoscenza della reale struttura interna di Cosa Nostra.
Detto e premesso questo, quella dei pentiti e del pentitismo, resta comunque, forse soprattutto, una storia tutt’altro che chiara e lineare, ma al contrario disseminata di ombre e contraddizioni che spesso e volentieri vanno fatalmente a intrecciarsi con i più grandi e inquietanti misteri che hanno segnato la nostra storia più recente.
Senza la pretesa di offrire, in questa sede, una ricostruzione esauriente, completa e approfondita, preme evidenziare almeno un dato, molto strano e singolare, che ricorre in maniera assolutamente costante in tutta la storia del rapporto tra pentiti, giustizia e istituzioni.
Il pentito, chiunque esso sia, per sua natura e per forza di cosa è una figura molto particolare. Quali che siano l’entità e l’importanza delle sue confessioni non dice mai tutto, ma seleziona le informazioni secondo criteri che spesso sfuggono e che sempre rispondono ai motivi più disparati. Omissioni e informazioni parziali che possono essere tanto dettagli più o meno irrilevanti quanto questioni enormi, fondamentali e decisive. Non solo: alcuni pentiti – è capitato, capita e capiterà – offrono confessioni che poi si rivelano essere totali menzogne.
In estrema sintesi, è ovvio, praticamente scontato, che le dichiarazioni dei pentiti vengano prese tutte in considerazione, ma che poi, in sede giudiziaria, debbano essere sottoposte a un’attenta e scrupolosa verifica.
Ed è proprio questa verifica di veridicità e attendibilità del pentito il dato su cui riflettere.
Documenti, dati ufficiali e atti processuali alla mano, emerge un modus operandi, una tendenza assolutamente singolare e tutt’altro che sporadica e casuale.
Ovvero, se a parlare è un pentito di Cosa Nostra o di qualunque altra struttura di criminalità organizzata, il punto di partenza pare essere sempre una presunzione di infondatezza delle sue dichiarazioni. Per questo quanto dice viene sottoposto a verifiche e revisioni continue, spesso a dir poco paradossali, sollevando dubbi anche laddove non sussistono ragioni logiche per non credergli, anche davanti all’evidenza più chiara e netta. E non da ultimo e non di rado, interi passaggi delle dichiarazioni, anche (soprattutto?) quando contengono autentiche rivelazioni clamorose, talmente grandi da meritare quanto meno approfondimenti, vengono lasciati cadere nel nulla.
Viceversa, quando ci troviamo davanti un pentito politico di una qualsiasi organizzazione terroristica, è più che tangibile una certa leggerezza nel considerare assolutamente credibili le sue confessioni.
Come se l’ex mafioso fosse inattendibile a prescindere mentre l’ex terrorista risultasse credibile a priori.
Ci sono, letteralmente, centinaia di esempi a conferma di quanto appena detto.
Ne scelgo giusto alcuni, tra i più celebri ed eclatanti. E inquietanti.

Si pensi prima di tutto a Tommaso Buscetta, il pentito per eccellenza, l’uomo che rivelò a Giovanni Falcone la reale natura di Cosa Nostra e le cui dichiarazioni furono la base del maxi processo che non solo mise la mafia alla sbarra, ma che dopo decenni di silenzi, omissioni e complicità, ne accertò finalmente l’esistenza come realtà organizzata, radicata e strutturata.
Nonostante le sue dichiarazioni avessero trovato da subito totale conferma nei riscontri disposti, Buscetta (e con lui Falcone, Borsellino e tutto il pool di Palermo) faticò non poco per essere creduto. In particolare l’intero impianto delle sue dichiarazioni rischiò di crollare, nel 1984, per il dettaglio del camino nella villa di Nino Salvo, lo zelante gestore degli affari di mezza Sicilia.
La storia è abbastanza nota: Buscetta, a riprova dei legami tra la mafia e la famiglia dei Salvo, racconta di essere stato ospitato nella loro villa per oltre un anno. E, per confermare la veridicità del racconto, descrive minuziosamente struttura e arredamento della villa in ogni minimo dettaglio, compreso un camino nella stanza principale dell’abitazione.
La descrizione offerta da Buscetta, come accerta una serie di sopralluoghi, corrisponde esattamente alla realtà. Tranne che per un particolare: il camino appunto, che non risulta essere presente.
Nonostante tutto il resto coincida perfettamente con quanto indicato da Buscetta, il camino mancante assume subito proporzioni gigantesche, al punto da essere ritenuto la prova che niente di quanto dice Buscetta può essere vero.
Se Falcone e Borsellino non avessero avuto l’intuizione di arrestare e interrogare tempestivamente il custode della villa Antonio Moavero, il quale raccontò come il camino fosse stato eliminato da successivi lavori di ristrutturazione (ristrutturazione, con annesse le tracce del camino, accertata da altri sopralluoghi), confermando quindi in toto la versione di Buscetta, probabilmente il maxi processo non sarebbe mai avvenuto e la storia del nostro paese sarebbe stata molto diversa.
Per colpa di un camino.

Sempre Buscetta, che inizialmente si era rifiutato di parlare dei legami tra mafia e politica, si decise ad affrontare questo colossale argomento dopo la morte di Falcone e Borsellino, nel pieno degli anni ’90.
Il cuore delle sue confessioni (così come quelle di altri pentiti di mafia negli anni a venire) ruota attorno alla figura di Giulio Andreotti. In particolare sul suo ruolo di mandante dell’omicidio Pecorelli.
Che si tratti di dichiarazioni a dir poco pazzesche, autentiche bombe capaci di far saltare in aria un intero sistema, infinitamente più grandi, decisive e inquietanti di quelle rese dallo stesso Buscetta quasi un decennio prima, non c’è nemmeno bisogno di dirlo.
Con tutto che Buscetta non solo si era già ampiamente dimostrato collaboratore attendibile per il maxi processo, ma le sue informazioni sui rapporti tra mafia e politica sono tutt’altro che vaghe, ma anzi molto precise e circostanziate con tanto di date, nomi e cognomi. Date, nomi e cognomi spesso confermati, e approfonditi, dalle deposizioni di altri pentiti di Cosa Nostra.
Come poi sia andata a finire è arcinoto. Tutte le vicende processuali che hanno visto coinvolto Andreotti per reati di stampo mafioso hanno avuto una conclusione assolutamente paradossale. Oltre all’assoluzione dall’accusa di essere mandante di ben due omicidi (quello già ricordato del giornalista Mino Pecorelli e quello del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella), la sentenza definitiva ha stabilito il coinvolgimento e la connivenza di Giulio Andreotti con la mafia fino al 1980 (tra l’altro l’omicidio Pecorelli risale al 1979), mentre dal 1980 in poi ne ha sancito la totale estraneità. Il paradosso più clamoroso è che non sono indicati elementi minimamente sufficienti o ragioni appena approfondite che spieghino o giustifichino il perché di questo discrimine temporale, cosa sia successo a cavallo del 1980, e che di conseguenza diano fondamento all’intera sentenza. È tutto così vago e fumoso che non c’è bisogno di essere accaniti complottisti per farsi prendere dal sospetto che la data, 1980, sia stata scelta per rendere prescritti (e quindi non più perseguibili) i reati contestati.
E sono proprio gli stessi reati a essere la parte più vaga e fumosa di tutto l’impianto. Cosa c’è dietro la generica definizione di “associazione a delinquere di stampo mafioso” di cui Andreotti viene ritenuto colpevole prima del 1980? Quali gli episodi esatti e specifici che determinano questa condanna?
Non è dato saperlo nonostante sarebbe non tanto interessante, quanto indispensabile, visto che non parliamo “semplicemente” dei cugini Salvo, ma di Giulio Andreotti, sette volte Presidente del consiglio, in assoluto l’uomo che più di ogni altro ha determinato le scelte e la vita della Prima Repubblica. Forse, seguendo e approfondendo le indicazioni di Buscetta e di altri pentiti, si sarebbe potuto sapere molto, molto di più. E finalmente fare luce su almeno alcune delle infinite zone d’ombra che caratterizzano la storia di quegli anni.
Ma nessuno ha voluto farlo.
Perché?

Se da Cosa Nostra ci spostiamo sulla Banda della Magliana,la storia non cambia.
Il primo pentito della celeberrima banda criminale è stato Fulvio Lucioli (per capirci, l’uomo che ha ispirato il personaggio del “Sorcio” di “Romanzo Criminale”).
Arrestato nel 1983, dopo alcuni mesi di travaglio, decide di collaborare con la giustizia. La sua è una confessione fiume che ripercorre l’intera storia della banda dalla sua nascita alla morte del boss Giuseppucci e alle successive faide interne. Estremamente dettagliata, la deposizione di Lucioli ne spiega struttura, ramificazione e principali attività criminali. Ed è la base del primo processo a tutti i principali esponenti.
Ora, nonostante la precisione del racconto, i numerosi riscontri e riprove, Lucioli viene ritenuto collaboratore totalmente inattendibile in virtù della sua lunga tossicodipendenza. La cosa, sul processo, ha una ricaduta enorme: data per falsa la versione di Lucioli, la sentenza nega la stessa esistenza di una banda, facendo crollare l’accusa più grave (associazione a delinquere) e condannando gli imputati singolarmente, per reati minori, oppure non condannandoli proprio e disponendone la scarcerazione.
Eppure, lo chiarirà la storia e soprattutto lo chiariranno indagini e processi successivi (quando però i più grandi responsabili saranno ormai morti o latitanti e introvabili), il “Sorcio” aveva ragione.

Ma perché le confessioni di Lucioli vengano accettate come vere e inconfutabili occorrerà attendere quelle dell’altro superpentito della Banda della Magliana, ovvero Maurizio Abbatino (sempre per capirci, l’uomo che ha ispirato il personaggio del “Freddo” di “Romanzo Criminale”).
La collaborazione di Abbatino con la giustizia ha inizio dopo un lungo periodo di latitanza all’estero,nel 1992, quando ormai la lunga parabola criminale della banda può dirsi definitivamente conclusa.
Quanto raccontato da Abbatino non solo conferma la versione di Lucioli, ma costituisce la base per un nuovo maxiprocesso che, finalmente, accerterà in maniera ufficiale e definitiva l’esistenza di una banda organizzata e strutturata che, più o meno indisturbata, ha esercitato su Roma e non solo, un dominio pressoché assoluto per oltre un decennio.
Ma non basta. Le dichiarazioni di Abbatino (che, è bene ricordarlo, sono di dominio pubblico, chiunque può leggerle e consultarle visto che addirittura ampi stralci si trovano addirittura su Wikipedia) vanno molto oltre la semplice storia della banda, la sua composizione e le sue molteplici attività criminali. Letteralmente esplosive, contengono nomi e cognomi, raccontano con estrema chiarezza e dovizia di particolari i rapporti e le implicazioni della banda con lo Stato, i Servizi Segreti, apparati governativi, uomini di spicco della classe dirigente, la strategia della tensione, lo stragismo, il sequestro Moro, la strage di Bologna.
Tutte questioni immense su cui però le indagini, le ricerche e gli accertamenti si sono clamorosamente arenati. Si è dato peso processuale alla parte più rassicurante del racconto di Abbatino (di fatto quella già nota per le rivelazioni di Lucioli) e si sono fatte cadere nel nulla le parti più scomode e scottanti.
E la domanda è sempre la stessa: perché?

Se per concludere ci spostiamo sul versante del pentitismo politico, di matrice terroristica, ecco che la prospettiva si ribalta di colpo.
Prendiamo l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. L’iter giudiziario e processuale che ha portato alla condanna in via definitiva dei militanti e dirigenti di Lotta Continua Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani quali mandanti, e Ovidio Bompressi e Leonardo Marino quali esecutori materiali del delitto, si è basato esclusivamente sulle confessioni di quest’ultimo, diventato collaboratore di giustizia dal 1988.
Il primo dato abbastanza strano di tutta questa storia è che Marino, all’epoca del delitto di cui si autoaccusa (1972), non faceva più parte di Lotta Continua e già da tempo aveva interrotto ogni contatto con il gruppo dirigente e con i militanti (in quell’anno gestiva un chiosco di frittelle e, a tempo perso, era dedito a rapine per autofinanziare la sua attività).
Ma la cosa veramente sconcertante è che la confessione di Marino, a sedici anni di distanza dall’omicidio, viene raccolta nel corso di un interrogatorio lungo ben diciassette giorni, del quale non viene prodotto alcun verbale. Il che non solo è fuori da qualsiasi logica, ma dal punto di vista strettamente legale non avrebbe alcun valore.
Eppure, questa confessione esclusivamente orale, ascoltata e mai trascritta, diventa il perno centrale del processo. A raccoglierla, e a farsi garante dell’attendibilità di Marino, è il colonnello dei carabinieri Umberto Bonaventura, un personaggio assolutamente controverso che, puntualmente, spunta fuori, sempre in ruoli di primo piano, in un numero esorbitante di episodi foschi ed inquietanti (è, tra le tante, il protagonista della misteriosa sparizione di buona parte delle carte originali del “memoriale” di Aldo Moro ritrovato dalle forze dell’ordine nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano, nell’autunno del 1978).
Al di là dell’assurdità del mancato verbale, è proprio la versione raccontata da Marino (anche in questo caso gli atti processuali sono facilmente consultabili da chiunque anche on line) a essere oggettivamente poco credibile: confusa, lacunosa e contraddittoria in ogni suo punto, a tratti addirittura paradossale.
Nonostante questo, nonostante tutto questo, giudici e inquirenti sono così convinti della sincerità di Marino, così convinti che dica la verità da passare sopra a ogni contraddizione e a ogni paradosso, a passare sopra al fatto che la sua storia non produca di fatto nessuna prova concreta e a passare sopra addirittura al fatto che Bompressi, indicato da Marino come colui che materialmente ha sparato a Calabresi, per il giorno dell’omicidio, avesse un alibi provato e verificato. A passare sopra a tutto quanto e ad arrivare ad emettere una sentenza definitiva di condanna.
Il che non significa automaticamente che Sofri, Bompressi e Pietrostefani siano innocenti. Ma le procedure messe in atto sono quanto meno bizzarre, al punto che, in qualsiasi altro caso giudiziario, non sarebbe stato possibile sentenziare una condanna. Al punto da far sorgere il legittimo sospetto, di nuovo privo di complottismi ossessivi e di maniera, che più che di un processo si sia trattato di una specie di regolamento di conti dove, per ragioni tuttora insondabili, occorreva sacrificare qualcuno sull’altare della patria e chiudere una volta per tutte con una condanna esemplare la storia degli anni tumultuosi della sinistra extraparlamentare.

Infine, “l’affaire” Aldo Moro.
L’episodio in assoluto più sconcertante (e decisivo) della storia della Repubblica italiana, il mistero italiano per eccellenza dove ancora siamo molto più che lontani dalla parola fine, ovvero il sequestro e l’uccisione del Presidente della Democrazia Cristiana a opera delle Brigate Rosse, trabocca, manco a dirlo, di episodi molto più che inquietanti, interrogativi mai risolti, omissioni, depistaggi, intrighi politici a non finire.
In questo pandemonio intricato e labirintico, anche i pentiti hanno fatto la loro parte.
Si pensi soltanto che la prima ricostruzione dell’agguato di via Fani, dove fu rapito Moro e uccisi tutti gli agenti della sua scorta, viene fatta dai pentiti Patrizio Peci e Antonio Savasta. Ma i due ex brigatisti, per loro stessa ammissione, non erano presenti quel giorno in via Fani e non furono personalmente coinvolti in nessuna delle fasi del sequestro, e poterono ricostruire la dinamica dell’agguato esclusivamente sulla base dei racconti fatti a voce da altri militanti.
Una ricostruzione quindi per forza di cose piena di lacune, stranezze e contraddizioni.
Eppure, questa versione elaborata “per sentito dire”, viene accettata come vera e costituisce la base del primo processo Moro, celebrato nel 1982. Un “sentito dire” che diventa la verità “ufficiale” del caso politico più oscuro e importante della storia italiana più recente.
Inutile dire che siamo molto oltre lo sconcertante.
Quando, qualche anno più tardi, precisamente nel 1984, Valerio Morucci, che in via Fani c’era e che seguì tutte le fasi di quei convulsi cinquantacinque giorni, intraprende la via della dissociazione e inizia a collaborare con la giustizia, la storia non cambia affatto. Anche Morucci infatti, appartiene a quella categoria di pentiti che vanno creduti a tutti i costi.
Morucci di via Fani offre una versione non molto diversa da quella di Peci e Savasta. Aggiunge particolari importanti, colma le lacune e chiarisce le precedenti contraddizioni.
All’apparenza sembra tutto rispondere a una logica stringente e incontestabile: a un primo racconto “di seconda mano” per forza incompleto subentra quello “di prima mano” a rendere tutto più chiaro e lineare.
All’apparenza appunto, perché di cose che non tornano affatto ne restano parecchie.
Pur senza fare nomi (i nomi arriveranno in seguito), Morucci fornisce il numero esatto dei partecipanti all’agguato: nove. Di quei nove, sempre secondo Morucci, furono solo in quattro a sparare (lo stesso Morucci, Fiore, Gallinari e Bonisoli), utilizzando sei armi (di cui ben quattro, sostiene Morucci, si sarebbero inceppate durante la sparatoria) e aprendo il fuoco esclusivamente dal lato destro della strada.
Il problema è che la perizia balistica effettuata sul posto nel 1978 solleva ben più di un dubbio sulla ricostruzione di Morucci (sembrerebbe che ben 48 bossoli dei 91 repertati provengano da un’unica arma, il che sarebbe abbastanza singolare visto che praticamente tutti i mitra si incepparono durante l’operazione) e smentendola categoricamente in un punto: il maresciallo Leonardi, seduto accanto all’autista della macchina su cui viaggiava Aldo Moro, sarebbe stato colpito dal lato sinistro della strada, mentre Morucci sostiene che il commando colpì esclusivamente da destra.
Il paradosso è che in sede processuale sono state accettate entrambe le cose, tanto la perizia quanto il racconto di Morucci.
C’erano altre persone a sparare in via Fani? Se sì, chi? Morucci omette volutamente il nome di altre persone? E soprattutto perché ben sei processi e quattro commissioni parlamentari si sono rifiutate di fare chiarezza su questa e altre contraddizioni?
Di nuovo e per l’ultima volta: perché?

Quanto abbastanza sommariamente e frettolosamente scritto finora, ed è importante ripeterlo ancora una volta, non è dettato da alcun complottismo d’accatto tanto di moda di questi tempi. È semplicemente una riflessione, sincera e attonita, basata esclusivamente su dati certi, dichiarazioni e documenti processuali, la maggior parte dei quali (anche questo bene ripeterlo) oggi facilmente consultabili da tutti.
È, questa della doppia misura adottata nei confronti dei pentiti, una testi sostenuta a più riprese da un magistrato gigantesco come Ferdinando Imposinato, un uomo che nella sua limpidissima carriera si è occupato tanto della Banda della Magliana quanto del sequestro e dell’omicidio Moro. In particolare il grande uomo di giustizia lo ricorda più volte nel libro, scritto assieme a Sandro Provvisionato, “Doveva morire: chi ha ucciso Aldo Moro”, edito da chiarelettere.
Un libro da leggere a ogni costo, assolutamente rivelatore e illuminante.
Illuminante almeno per chi ancora non si rassegna e ancora ha voglia di scoprire la verità.
Per tutti gli altri invece, non resta altro che il buio e l’oblio.