“C’era una volta una bambina di nome Ada che addomesticava cani e gatti di nessuno… “

“C’era una volta una bambina di nome Ada che addomesticava cani e gatti di nessuno…”

Storie di belle ragazze – Ada Bellanova

Il nostro lungo viaggio nell’universo femminile, che volge ormai quasi al termine, ci porta oggi a conoscere una splendida ragazza di nome Ada Bellanova.
Scrittrice raffinata e tenace, penna potente e delicata al tempo stesso, Ada vive da tempo in Toscana ma, come ci racconterà lei stessa, la sua anima ha ancora e sempre i sospiri della Puglia, i colori del Mediterraneo, i battiti del sud. Il fuoco della sua splendida terra d’origine che, pur non rimanendoci ancorata, continua a chiamarla negli anfratti più nascosti della memoria, grido ed eco sibilante e irresistibile.
Donna forte, femminile e sensuale oltre ogni stereotipo, Ada non si è limitata a rispondere alle nostre domande. Ci ha spalancato senza indugi né reticenze il suo mondo, sprigionandocelo addosso con la forza di un Maestrale e accompagnandoci in un viaggio dentro i suoi abissi luminosi e le sue albe oscure.
Ci ha parlato del suo ultimo libro, “Papamusc”, del suo essere scrittrice e di tanto, tantissimo altro.
Un tantissimo altro che niente meglio delle sue parole possono raccontarci.
Non ci resta che ascoltarla…

D- Se la tua vita fosse una fiaba e cominciasse col classico “C’era una volta una bambina di nome Ada che…”, come continueresti questo incipit?

R- C’era una volta una bambina di nome Ada che addomesticava cani e gatti di nessuno, costruiva casette con le pietre, raccoglieva fiori di cappero. Giocava spesso fuori, a pallone coi maschi, e però le dicevano che doveva essere una damina bene educata e allora lei trovava il suo modo di esserlo: si metteva composta accanto alle vecchie della strada e si metteva a leggere, e leggeva leggeva leggeva. E più leggeva e più sognava. E più sognava più le si ramificavano nella testa storie di tutti i tipi, che era pronta a narrare ai suoi compagni di giochi, lì, accanto all’orto della ‘strega’ dove un giorno furono ritrovati misteriosi vasi d’altri tempi…

D- L’idea di cominciare così l’ho mutuata da un libro, “Storie della buonanotte per bambine ribelli”… tu ti senti una bambina ribelle? Se sì, in cosa? /

R- Sì, penso di sì. Per tante ragioni. Per esempio per una fedeltà all’autentico che mi spinge spesso all’indignazione, perché non mi piace fare qualcosa solo perché “sta bene farla” o perché la tradizione vuole così. Pure perché non metto i tacchi alti.

D- Veniamo alla tua attività di scrittrice… quando hai incontrato la scrittura sulla tua strada?

R- Ho cominciato a scrivere prestissimo. Avrò avuto 6 o 7 anni e mi sono inventata una storia di fiori parlanti: c’erano una rosa antipatica, delle margherite discrete, qualche giglio altruista. Chissà poi perché ho pensato i gigli così e chissà che fine ha fatto quel racconto. A 9 anni invece scrivevo saghe familiari. Niente di che, attenzione, ma c’erano sempre tanti fratelli, tanti cugini, un sacco di animali… e pranzi pantagruelici che descrivevo con minuzia di particolari.

D- Che cosa significa per Ada scrivere?

R- Credo che prima di tutto la scrittura sia per me un dono e il mio modo di rinnovare un piacere infantile. Come dicevo prima, già da piccola amavo inventare storie, e amavo la fascinazione che provocavo in chi mi ascoltava o leggeva. La scrittura insomma mi diverte. Eppure allo stesso tempo è un processo faticoso, che richiede esercizio, perché ormai, ovviamente, non mi interessa più solo raccontare una storia: mi interessa raccontarla in un certo modo, porre delle questioni, e, per fare questo, occorre esercizio. Per me non è in gioco l’ispirazione pura, ma anche il labor limae. Scrivere risponde ad un mio bisogno di ‘fotografare’ e trasmettere. Il mio sguardo sulle cose diventa parola e pretendo che la pagina evochi quell’immagine.

D- Quanto conta in ciò che scrivi il legame con i luoghi, a partire dalla tua terra d’origine fino a quelle in cui sei andata a vivere?

R- Vincenzo Consolo scrive che non può narrare di Milano dove pure ha vissuto quasi tutta la vita perché non ha ‘memoria’. E allora le sue pagine tornano sempre sulla Sicilia, tornano alle sue radici. Credo che anche per me sia così. A volte, quando scrivo, le trame, i personaggi, le ambientazioni sono altre, è chiaro, sembrano non avere niente a che fare con la mia terra d’origine, e invece sempre di quella parlano. Quindi la Puglia, il Sud, il Mediterraneo, perché lì mi hanno piantata, come fossi un ulivo. Mi sento abitata dal vento del mio paese d’origine e dai saltarelli della tradizione popolare e questa parte di me, niente affatto pacificata, si intromette prepotentemente nella mia scrittura. Credo che davvero conti la ‘memoria’ di cui parla Consolo, che non è esattamente, almeno per come la vedo io, il ricordo, ma una questione di pancia, qualcosa di viscerale.
Ciò non vuol dire che io non possa in assoluto parlare di altre terre. Però per esempio non ho mai parlato molto della Toscana, eppure ci vivo da molti anni e questi luoghi hanno saputo e sanno essere per me casa. Invece un’esperienza di quattro mesi – travolgente – nella Cina dei campi da tè e dei grattacieli ha finito per richiedere spazio nella scrittura. Sai cos’è sorprendente però? Mentre rileggo di templi buddisti, consuetudini orientali, riso e tofu, tra le righe spunta il mio Sud: dei colori, delle sfumature, degli sguardi.

D- Una penna maschile e una penna femminile, narrativa maschile e narrativa femminile… secondo te c’è differenza? In cosa?

R- Esiste una sensibilità maschile ed esiste una sensibilità femminile. Ma molte altre sono le sfumature, le implicazioni della scrittura. Sì, a volte mi sono detta “toh, questa è proprio una scrittura maschile”, oppure “ecco uno stile femminile”: la pagina mi riportava ad un certo tipo di universo, nei contenuti, nella tecnica. Mai però l’ho pensato leggendo autori per me veramente significativi: ognuno mette in campo la propria specificità, no? Una volta mi è stato chiesto se ritenessi la mia scrittura “femminile”. Non saprei. Sono una donna, quindi è ovvio che questo aspetto ci sia, ma preferisco che chi legge senta me in quanto Ada.

D- Il tuo ultimo romanzo, Papamusc’, è uscito due anni fa. Prima di entrare nella storia, che cosa ti ha lasciato l’avventura editoriale di questo libro? Quali luci e quali ombre?

R- Papamusc’ ha poco più di un anno, sì. Intanto è sempre un’emozione straordinaria avere il libro stampato in mano. Mi è piaciuto moltissimo parlare di Papamusc’ con la gente, confrontarmi con i lettori e con i potenziali lettori. Il romanzo ha a che fare con le radici e con l’identità e mi hanno molto toccato alcune riflessioni. Una ragazza, alla fine di una presentazione, mi ha confessato che aveva preso il libro come una sorta di segno: sentiva un grumo dentro relativo alle sue origini e, dopo aver incontrato Papamusc’ si sarebbe messa a indagare il suo passato. Chissà se l’ha fatto davvero?
L’aspetto negativo: la difficoltà di autopromuoversi. Le piccole e medie case editrici hanno ben poche forze e il risultato è che non fanno esattamente ciò che dovrebbero fare. Tocca all’autore diventare personaggio, elemosinare recensioni, accordarsi con le librerie. Ecco, questo non mi piace, devo dirlo. A me piace scrivere, io voglio scrivere. Non sono una brava venditrice e neppure voglio esserlo. La riflessione a questo punto diventerebbe più ampia e verterebbe sui meccanismi dell’editoria oggi. Ma la rimando ad un’altra conversazione. Vuoi?

D- Titolo, copertina e incipit fanno subito venire in mente qualcosa, o meglio scaraventano subito in un terreno che è quello del cosiddetto “realismo magico”. Ti riconosci, o meglio riconosci il tuo libro, in questa definizione?

D- In parte sì. Il confine tra reale e onirico è molto sottile, secondo me, e nel libro ho cercato di giocare su questo. Credo di aver subito il fascino del realismo magico molto presto, grazie ai libri di Gabriel Garcia Marquez. Poi mi hanno conquistato altri autori. Borges per esempio, o Calvino. E, proprio a proposito di Calvino, Papamusc’ vuole essere anche un omaggio alla leggerezza come lui la definisce. Vuole essere un pochino fiaba.

R- Raccontaci, in poche righe e senza svelarci troppo, Papamusc’. E’ la storia di… ?

D- Prima di tutto è la storia di un microcosmo – un anonimo paese del Sud dominato da un castello e una cattedrale -, in cui si intrecciano vicende, personaggi si incontrano, interagiscono, come in un labirinto. Un microcosmo che ha scarsa coscienza di sé, del proprio passato. Ma è anche la storia di Grazia, che torna per trovare se stessa, la sua identità, e si imbatte in un cane e, senza volerlo, in altre storie.
Tutto nella giornata del santo patrono, Sant’Antonio, il santo delle cose perdute.
Chi ritroverà che cosa? E chi è Papamusc’, il narratore che quasi tutto vede e quasi tutto sa?

D- Cosa c’è nel tuo futuro letterario e cosa vorresti che ci fosse?

R- Ora tra una cosa e l’altra provo a scrivere della Cina. Sono pienissima di ispirazioni orientali. E quindi, sì, mi piacerebbe trovare un editore per questo libro che ancora non c’è. Ma in generale spero di non stancarmi mai di scrivere e raccontare, e che mi venga data la possibilità di comunicare, trasmettere.

D- Se la bambina della prima domanda ti incontrasse oggi, cosa ti direbbe?

R- Ricordati di scrivere sempre e cerca di stare bene mentre lo fai” e “continua a fare tutte le cose che ti danno piacere”. A volte ho un senso del dovere un po’ troppo invadente…

Grazie Ada…

A giovedì prossimo,
RL

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