“C’era una volta una bambina di nome Virginia che voleva cambiare il mondo ridendo… “

“C’era una volta una bambina di nome Virginia che voleva conquistare il mondo ridendo, e per questo faceva fare le cinque del mattino ai suoi genitori”

Storie di belle ragazze – Virginia Billi

Rimettiamoci in cammino e, dopo la lunga pausa natalizia, riprendiamo il nostro viaggio nell’universo femminile.
Da Bologna, dove avevamo fatto l’ultima tappa, torniamo di nuovo nella nostra Firenze e andiamo a conoscere una splendida ragazza di nome Virginia Billi.
Sempre e da sempre annunciata da una cascata, immensa e fiabesca, di riccioli rossi come il fuoco e come il sangue, Virginia è una giovane attrice che sul palco cerca prima di tutto sé stessa, la sua voce più autentica, il suo posto nel mondo.

L’impressione, forte e netta, è che il teatro sia per lei non tanto un mestiere o una passione, quanto soprattutto un’esperienza esistenziale profonda e viscerale, un modo incessante per scavarsi dentro, morire e rinascere milioni di volte nelle vesti – stinte o accesissime che siano – di qualche personaggio e poi rigenerarsi nella sua più piena autenticità di donna. Un modo per non lasciarsi stare, per non accontentarsi e continuare continuamente a chiedere e a chiedersi. Tanto al mondo quanto a sé stessa.
Ma ridurre tutto questo alla sola dimensione del teatro, significherebbe come minimo sminuire la sua complessa (ed esplosiva) personalità.
Battagliera nel senso più pieno e sincero del termine, Virginia porta e replica questo viaggio continuo, queste infinite tappe della ricerca di sé e della necessità di continua mutazione e resurrezione, in ogni angolo del suo quotidiano, in ogni spazio della sua vita.
Stupendamente incontentabile, è come se ogni istante Virginia volesse ricordare, a noi e a sé stessa, che una vita è troppo poco per non viverla in maniera totale e straripante. Troppo poco per non chiedere, o meglio urlare e pretendere, l’impossibile.

Passionale senza essere irragionevole, gioiosa senza essere spensierata, c’è qualcosa in Virginia di ancestrale e antichissimo, un femmineo primordiale, un misto di archetipi perduti nella notte dei tempi, come se in lei si siano fusi e amalgamati, in una strana e armoniosa alchimia, opposti e contrari primitivi. Così Virginia è al tempo stesso il ruggito di Circe e la schiena larga di Penelope, la dolcezza di Nausicaa e il fuoco di Calipso.
Se i suoi capelli sono lo specchio del fuoco e della sua passionalità, gli occhi raccontano inquietudini profondissime e silenzi che nessuno sa. Poi c’è il sorriso, dove esplode la sua incontenibile (e contagiosa) gioia di vivere.
Perché è proprio lei, la gioia di vivere, il filo che tiene insieme questo caleidoscopio che è Virginia. E davvero non è un caso che, come a tutte le altre ragazze intervistate, le chieda: “immagina che la tua vita fosse una fiaba. “C’era una volta una bambina di nome Virginia che… “. Continua tu questo incipit”, lei mi risponda: “… che voleva conquistare il mondo ridendo e per questo faceva fare le 5 del mattino ai suoi genitori”.
Quello che segue, è quanto ha voluto regalarci.

D- L’idea di iniziare queste interviste con “c’era una volta”, è venuta da uno splendido libro che amo molto, “Storia della buonanotte per bambine ribelli”. Tu ti senti una bambina ribelle? Se sì, in cosa?

R- La mia parte ribelle è così ribelle che non riesco più a trovarla neanche io.
Sono abbastanza Ribelle, o meglio, sicuramente lo sono stata per tutta la mia adolescenza e fino a poco fa.
Avevo un temperamento molto focoso e impulsivo: mi scagliavo contro chi era ingiusto e poco sincero. Avevo un forte senso combattivo, soprattutto verso le ingiustizie nel mondo, e avevo tanta voglia di combattere per poterlo cambiare.
Ad oggi probabilmente quell’impeto emotivo è cambiato, non è cessato quel fuoco, ma si è trasformato. Forse è stato anche un po’ costretto a cambiare, dato che bruciavo tutto e tutti: agli occhi degli altri quello “spirito combattivo” sembrava più uno spirito aggressivo.
Ci tengo a dire che non si è spento quel fuoco, continuo a mantenerlo vivo, ma senza bruciare più le persone intorno a me.

D- Partiamo dall’inizio. Virginia attrice come nasce? Dove e quando hai incontrato sulla tua strada questa passione?

R- Il teatro l’ho incontrato un po’ per culo e un po’ per noia.
Virginia attrice nasce con tante difficoltà e con molta fatica. Sul palco ho dovuto reimparare a camminare, a respirare, a parlare… Ho dato vita a diverse me lassù, ognuna di queste non ero io ma era una me più grande e più bella. Il palcoscenico è un altro mondo, non si parla lingua umana, si è animali, ci si annusa. Annusarsi è quasi un tabù ormai, bisogna coprire ogni odore, bisogna sapere tutti dello stesso profumo, nascondere il vero odore della nostre pelle, ci scordiamo che la nostra pelle ha un odore e che sa dirci che stiamo provando un’emozione. Puzziamo! Per fortuna.
Il palco dà molta dipendenza e una volta che sei stato lassù è difficile voler scendere. Forse è qui che è nata la mia passione, standoci sopra, interpretando e avendo fame di emozioni. Mi ha nutrita più che appassionata.
Ho scelto di fare l’attrice perché mi ero stancata di vivere cose normali e volevo provare cosa significasse essere Regina, Eroina, Strega oppure semplicemente vestire i panni di chi è diverso da me.

D- Cosa significa per te essere un’attrice?

R- Diciamo che in questo momento della mia vita mi sto chiedendo se “sono” o se “faccio” l’attrice.
Bisogna stare molto attenti perché quando si ritiene di “essere un personaggio” si rischia di immedesimarsi in un ruolo che non ci appartiene. Io sono stata Cassandra, l’ho interpretata, ma non lo sono, una parte di me ha incontrato Cassandra, l’ha capita, la ha amata, ma una volta chiuso il sipario e lasciato il teatro Cassandra è lontana da me.
E’ da un po’ che mi interrogo su questa frase: “Io sono o faccio l’attrice?”. Questa domanda è il mio cruccio. Penso che dopo aver conosciuto il palco si sia un po’ destinati nella vita a portarsi dietro il fardello di essere comunque quel che si fa.
Probabilmente la risposta sta nell’accettare il proprio dovere di Essere colui che si è sul palco, per rispetto dell’autore e del pubblico, e di accontentarsi di Fare l’attrice quando non si calcano le scene.
Non so se sono quel che faccio, ma so senz’altro che spesso ci sono dei personaggi così dolorosi e così arrabbiati che ti rabbuiano. In questo lavoro il lavoro te lo devi portare a casa! Bisogna essere molto bravi a giocare con certe emozioni, perché non sempre ti porti l’emozione del vedere il primo amore di Giulietta, a volte ti porti una spietata Medea…
Per me essere un’attrice significa domandarmi se Sono o se Faccio!

D- C’è fra i personaggi interpretati e gli spettacoli fatti, uno che ricordi in particolare? Perché?

R- Il personaggio che ricordo con più meraviglia è il personaggio di Sibilla Aleramo. Una donna splendida, passionale, carnale, rivoluzionaria, che ha saputo portare avanti l’idea di emancipazione femminile, una donna scandalosa spudorata e mai banale, con un carattere talmente dirompente da far girare la testa a mezza Italia.
Ho amato interpretare quel personaggio perché mi trovavo davanti ad una forza della natura così donna e così adolescente. Nel carteggio con Dino Campana scrive lettere così emotive, passando da una passione travolgente ad una freddezza così algida che per una giovane attrice come me potermi cimentare in quel personaggio è stata una grande rivelazione. Impersonarla mi ha arricchita sia al livello di autostima che per quanto riguarda la sfera emotiva.

D- allora, la tua carriera è sul trampolino di lancio… cosa desideri ci sia nel tuo futuro professionale? A cosa punta Virginia come attrice?

R- Credo che noi attori dovremmo credere un po’ di più all’utopia. Nel credere in grande, puntare ai grandi obiettivi, perché il pensiero che la maggior parte degli attori sta vivendo è quello di un pensiero insidioso come un tarlo, che sta lì e ci mangia un pezzo per volta, ci consuma e noi ci lasciamo consumare. Tendiamo a sminuirci, a dire e ripetere la frase NON SAREMO MAI “non sarò mai una grande attrice” “non verrò mai ricordata” “non farò la storia del Teatro”, questi pensieri sono così logoranti che ci bloccano, ci annientano e ci portano sempre più in basso,
tanto in basso che iniziamo ad accontentarci di quel poco che abbiamo,o che magari vediamo raggiungibile di lì a breve, e iniziamo a raccontarci “a me basta lavorare in questo settore, anche a poco” oppure “l’importante è recitare, per cui mi faccio andare bene tutto”. Quando gli obiettivi diventano così bassi è difficile poter progredire perché noi, in natura, come esseri umani facciamo sempre un pochino meno dello sforzo che andrebbe fatto per superare noi stessi. Per cui dovremmo capire che pensare in piccolo ci porta sempre più verso il basso, mentre avere dei grandi obiettivi ci permette di sforzarci per ottenerli e quindi alzare il nostro livello. Impegnarsi è faticoso, è stancante, ma è l’unico modo per salvarsi in questo settore.
Per questo Virginia come attrice punta, in maniera utopica, a: “Io sarò una grande Attrice!”, “Io verrò ricordata come Attrice” nella speranza di riuscire, con obiettivi così alti, a trovare almeno l’equilibrio che mi permetta di vivere di questo lavoro e non di sopravvivere.

D- al momento sei un’attrice di teatro… il cinema cos’è? Un’aspirazione, un’eventualità o un qualcosa di trascurabile?

R- Chi non vorrebbe fare l’attrice di cinema?
Sarei matta a dire di no. Però io ho bisogno di sentire il pubblico, di sentire il respiro e il brusio delle persone prima di entrare in scena. Quel momento prima che si apra il sipario, quel momento che ti rende tra la vita e la morte, in cui sei in un limbo e non sai chi avrai davanti. Questa adrenalina non riesce a darmela la telecamera, o forse non ancora.

D- A teatro oggi va sempre meno gente, gli spazi chiudono, i soldi diminuiscono. Perché a tuo avviso? Qual è il male delle scene italiane?

R- Qui tocchi un altro tasto dolente.
Se andiamo a leggere i dati ISTAT di quanta gente è andata a teatro nel 2017 c’è da rimanerci male. Sembra che siamo un popolo refrattario alla cultura, perché non solo è in calo il teatro, ma la cultura in generale.
Non si può pensare che la colpa sia solamente del pubblico, che è ignorante e non apprezza il Teatro.
I motivi sono molteplici
Il teatro è un linguaggio, esattamente come lo è la lingua inglese. Questo linguaggio deve essere insegnato fin da piccoli nelle scuole. Ci deve essere un’apertura verso il teatro, una scoperta.
E questa conoscenza deve partire dalla scuola. Non è possibile che nelle scuole italiane si sia così indietro, e che la materia del teatro non esista. Il teatro è un rito, è un rituale, fa scoprire i nostri demoni ed è importante che non venga relegato ad un semplice hobby, ma che invece venga studiato come una materia che ha la stessa utilità intellettuale per l’individuo al pari della matematica, della filosofia, della letteratura etc.
Quindi il principale motivo ritengo che sia un’impreparazione del pubblico ad accogliere un linguaggio che molti ritengono noioso, per mancanza di strumenti.
Dall’altra parte ritengo che il Teatro sia troppo spesso autoreferenziale e conservatore e che tenda ad estromettere un pubblico dando per scontato che non lo capirà.
Perché pur essendo vero, come dicevo prima, che il pubblico non è preparato ad accogliere questo linguaggio, credo che troppo spesso questo sia diventato un alibi per non rinnovarsi o per non sforzarsi di parlare al pubblico in maniera meno banale.

D- Oggi quando si parla di attrici e di mondo dello spettacolo si finisce inevitabilmente per parlare dello scandalo delle molestie sessuali. Cosa pensi di tutto questo?

R- Penso che quelle che vengono chiamate molestie sessuali non siano altro, nel contesto del mondo dello spettacolo, che enormi manifestazioni di abusi di potere.
Non sto sminuendo gli eventi, tutt’altro, anzi credo che chiamarli “abusi di potere” invece di “molestie” ne sottolinei la gravità e ci aiuti a non trattarli con il cinismo con cui li sentiamo troppo spesso trattare.
Da parte mia non può che venire una condanna per tutte queste situazioni in cui uno squilibrio di potere porta ad un abuso o ad una molestia e senza dubbio il mondo dello spettacolo deve lavorare molto per limitare questo tipo di fenomeni.
Hollywood è soggetto più di altri a dinamiche di potere ma non scordiamoci che in ogni contesto lavorativo, dal teatro agli uffici pubblici, si possono trovare dinamiche tali da permettere
situazioni di abusi che sono molto gravi anche se la loro risonanza mediatica rimane limitata.

D- Indipendentemente dalla questione molestie, il teatro è sempre e ancora un mondo al maschile?
Cioè, ci sono sempre più autori che autrici, più registi che registe, più grandi ruoli maschili che ruoli femminili?
C’è una difficoltà maggiore, per una donna, nell’affermarsi sulle scene?

R- La mia personale esperienza mi dice che troppo spesso una donna deve fare il doppio del lavoro e della fatica per essere considerata capace al pari di un suo collega di sesso maschile. Non è vero che non ci sono grandi ruoli femminili, è vero invece che si sceglie di proposito di rappresentare più spesso opere o Piece teatrali con grandi ruoli maschili: credo che questo sia
la conseguenza di una sorta di maschilismo di riflesso che il teatro vive.

D- lasciando stare il teatro… cosa significa per te essere donna?

R- Per me essere Donna è riuscire a farcela da sola. Salvarsi dal drago senza l’aiuto di nessun principe azzurro.
Donna è libertà, intraprendenza, forza e soprattutto sensibilità.
Vorrei vedere più donne libere di agire, di ridere, di essere spudorate, le vorrei vedere sorridenti che si amano e si sentono forti senza sentirsi frenate da una gabbia costruita per loro da altri.
Perché questo è essere donna, libera di scegliere.

D- in cosa Virginia si sente forte?

R- Nell’affrontare le sfide della vita con il coraggio e il sorriso.

D- in cosa Virginia si sente impotente?

R- Mi sento impotente davanti allo scorrere del Tempo.

D- Se quella bambina che voleva conquistare il mondo ridendo ti incontrasse oggi, cosa ti direbbe?

R- Sarebbe contenta di vedere che rido ancora molto, ma mi direbbe certamente di ridere ancora di più.

Finita l’intervista, vi svelo una cosa.
Virginia è stata una mia alunna, oltre dieci anni fa, esattamente all’inizio della mia carriera, quando ancora non avevo nemmeno trent’anni ed ero un professore inesperto e pieno di dubbi sulle mie capacità di insegnare. Di Virginia studentessa mi ricordo milioni di cose (la sua grafia grande e barocca, i suoi temi profondi e toccanti, la sua passione per Rimbaud e i poeti maledetti… ), che però adesso non starò a dire, almeno non qui.
In questa sede volevo solo dire che è anche grazie a Virginia, a quella classe, a quell’anno scolastico e a quel gruppetto di ragazzine terribili (oltre Virginia, Beatrice, Ilaria, Gemma, Vania… ) che sono diventato un insegnante.
A giovedì prossimo,
RL

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