“C’era una volta una bambina di nome Federica che incideva parole sugli alberi, convinta che fosse l’unico modo per lasciare traccia del suo passaggio…”

“C’era una volta una bambina di nome Federica che incideva parole sugli alberi, convinta che fosse l’unico modo per lasciare traccia del suo passaggio…”

Storie di belle ragazze – Federica Nosei

Il nostro lungo viaggio nell’universo femminile, iniziato a ottobre in un luogo virtuale e immaginario tra il Veneto e la Calabria, finisce oggi, a Roma, tra i caseggiati di Centocelle, dove andiamo a conoscere una splendida ragazza di nome Federica.

Giornalista freelance, penna di frontiera e barricata, porta avanti da anni la scelta coraggiosa, spesso difficilissima e colma di ostacoli inimmaginabili, di una totale e assoluta indipendenza professionale. Una libertà tenace e ostica che le ha permesso di affrontare e dedicare splendide e illuminanti pagine alle questioni più spinose e scomode, dal G8 alla Cecenia, dalle basi Nato in Sardegna agli scandali farmaceutici.
Spesso le sue inchieste girano a lungo prima di trovare una sistemazione editoriale, tra veti incrociati e richieste di censura. E altrettanto spesso sono più accettate all’estero che da noi.
È il prezzo della libertà, commenta Federica sorridendo.
Ed è un sorriso che, per quanto indecifrabile, conosco molto bene, visto che ci lega un’amicizia lunga e importante, iniziata tra le barricate di Genova.
Fu la prima a recensire, secoli fa, il mio spettacolo “Con il tuo sasso”, quel monologo che di lì a poco mi avrebbe scaraventato in una tournée europea lunga anni. E quella casa di Centocelle, dove vive con il suo compagno Arturo, è passaggio obbligato di ogni mio viaggio nella Capitale.

Parlare di un’amica così importante è sinceramente arduo. Il rischio di perdersi nell’aneddotica dell’affetto, altissimo.
Perciò lascio subito la parola a lei, a quanto ha voluto regalarci in questa breve intervista.
Pensando che è molto bello chiudere un percorso in cui abbiamo raccontato storie, con chi le storie le racconta di professione.

D- Iniziamo sullo stile delle “storie della buonanotte per bambine ribelli”. Immagina la tua vita come una fiaba: “c’era una volta una bambina di nome Federica che… “… continua tu questo incipit.

R- “… incideva parole sugli alberi, convinta che fosse l’unico modo di lasciare una traccia del suo passaggio”. Non so perché, ma ero ossessionata dal far presente al mondo la mia esistenza, avevo questa smania di dire a tutti “io ci sono”. Se poi penso alla mia vita, al mio percorso, al mio carattere, posso dire che una logica c’è: in fondo ho sempre cercato uno spazio per far sentire la mia voce e, in quello spazio, trovare posto per le voci di chi non viene mai ascoltato.

D – Quanto è importante un certo concetto di “ribellione” nella vita di una donna?

R – Fondamentale e imprescindibile. Io la ribellione la vedo in tre modi: c’è quella di carattere, persone che sono geneticamente ribelli, tipo che ne so, gli artisti… poi c’è quella contingente, che scaturisce da un preciso contesto storico e sociale… e poi c’è quella, diciamo così, obbligatoria. Ecco, io penso che le donne, vista la loro storia nei secoli e vista la situazione attuale, abbiano l’obbligo, il dovere di essere ribelli. È l’unico modo per affermare sé stesse e la propria femminilità.

D- Perché hai scelto la strada del giornalismo?

R- Perché è la mia casa dell’anima. Perché la mia ribellione obbligatoria e la mia volontà di far sentire la mia voce hanno trovato nel giornalismo la dimensione ideale. È quello che ho sempre voluto fare, questo e solo questo. E forse è anche l’unica cosa che so fare. Nel corso degli anni ho passato momenti molto difficili, professionalmente e non. Scrivevo, scrivevo e nessuno accettava i miei pezzi. Zero soldi e la tentazione di mollare tutto e tentare altre strade. Penso che se non ho mai ceduto a quella tentazione, se non ho mai tentato altre strade, è anche perché in realtà non so fare nient’altro.

D – Diciamo che di mestiere racconti storie. Come le scegli, in che modo decidi di cosa parlare?

R – A volte me lo chiedo anche io. E ti giuro che una risposta netta mi manca. Penso sia come per te quando scegli l’argomento di un romanzo o di un testo teatrale. La tua sensibilità si accende in modo particolare, capisci che quello è il “tuo” argomento, ovvero un qualcosa che non solo ti interessa, di cui non solo ti appassioni, ma quello in cui hai tu per primo qualcosa da dire.
È l’unico metodo di lavoro che conosco. Spesso il giornalismo consiste in qualcuno che ti dice cosa scrivere (e a volte, purtroppo, anche come). Per questo ho scelto la strada del freelance.

D – A questo proposito. Tanti anni fa un tuo collega, di cui non posso fare il nome, disse a me e a te: “prima o poi dovrete diventare adulti e smetterla di giocare ai cani sciolti”. Visto che lui è diventato molto famoso e noi siamo rimasti “scrittori di nicchia”, aveva ragione? Non siamo mai cresciuti?

R – Vent’anni fa avrei reagito male, a parolacce. Oggi dico semplicemente facciamo due lavori diversi. Vedi, alla fine anche io sono cresciuta…

D – Ma se oggi un giornale ti offrisse una collaborazione fissa, continueresti a rifiutare?

R – È una domanda a cui non posso rispondere in assoluto. Dipende… proposte sono arrivate e arriveranno, ma mai a condizioni che ho ritenuto in linea con le mie idee. Se queste condizioni ci dovessero essere, perché no?

D – L’esperienza più bella e l’esperienza più brutta nella tua carriera.

R – La più bella senza dubbio il ciclo di interviste in un campo profughi palestinesi. La più brutta… tutte le volte che un mio scritto viene rifiutato non per la forma, ma per la sostanza. A volte senza nemmeno essere letto…

D – Che cosa significa essere donna?

R – Significa tante cose, una complessità che non si esaurisce in una risposta. Mi limito a tre principi: lottare per la propria autodeterminazione, lottare per la propria unicità, non inseguire né imitare alcun modello.

D – Eppure ancora oggi, 2018, siamo – come società – ancora ben lontani non dico dal raggiungimento, ma proprio dal l’accettazione dei principi che hai elencato. Perché?

R – Perché il maschilismo è un modello sociale (ed economico e politico) che sostanzialmente fa comodo. È più rassicurante. Le donne non hanno mai avuto il potere, non lo hanno nemmeno mai condiviso. Intendo come genere: le donne che lo hanno fatto sono state o delle stupende eccezioni oppure hanno dovuto imitare gli uomini. Se le donne entrassero, ripeto come genere, nelle stanze che contano in maniera paritaria, questo imporrebbe l’irruzione di un nuovo punto di vista su ogni cosa, una rivoluzione gentile e devastante di ogni status quo. E nessuno ha interesse a farlo.
Quindi rimaniamo a una situazione di sostanziale subalternità. E vedi che non parlo di casi eclatanti di violenze, abusi e sottomissioni. Parlo di una realtà tristemente quotidiana dove la donna deve faticare il doppio o il triplo a realizzarsi. Ma ti pare possibile che se io, quando vado a proporre un articolo, mi metto la gonna, c’è uno stuolo di persone, uomini e donne, che automaticamente pensano che, oltre il mio scritto, vada ad offrire anche altro?

D – Come si costruisce, come si dovrebbe costruire un futuro senza più femminicidio, violenza… un mondo libero dal maschilismo?

R – Con una vasta operazione di rifondazione culturale che solo la scuola può compiere dal basso. Perciò, caro prof, è anche e soprattutto compito tuo…

D – In “Lettera a una professoressa”, don Milani scrive che la battaglia che sta facendo è “dei poveri per i poveri”, e che quindi i ricchi, i benestanti, anche quelli illuminati e sinceramente dalla parte dei poveri, devono limitarsi a sostenerla quella battaglia, senza partecipare perché non li riguarda. La stessa cosa che pensava Malcolm X a proposito dei bianchi. Possiamo dire la stessa cosa a proposito degli uomini nella battaglia per la parità dei diritti?

R – Penso che tutti debbano contribuire alle lotte sacrosante. E questa lo è. Però certo, ovviamente deve partire e deve essere guidata dalle donne. Da chi se no?

D – Ma se la bambina della prima domanda ti incontrasse oggi, cosa ti direbbe?

R – Mi direbbe grazie per aver fatto sentire la mia voce, per aver lottato questo. Ma mi direbbe anche che le manca un po’ quella purezza e quel l’innocenza, e anche solo per un giorno le piacerebbe tornare a incidere parole sull’albero. E mi chiederebbe: andiamo?

E con questo, aspettando di tornare a incidere parole sugli alberi, il nostro viaggio si ferma. O meglio, si riposa.
E l’anno prossimo ripartirà per altre dieci nuove ed entusiasmanti tappe.

Per ora, davvero e con tutto il cuore, grazie a tuttE,
RL

#storiedibelleragazze
#storieRiccardoLestini

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