Il Prof.

ai miei studenti di ieri e di oggi

 

Quando ho iniziato a lavorare a scuola avevo appena compiuto 28 anni. In realtà era già diverso tempo che bazzicavo le scuole. A 24 anni avevo cominciato a lavorare come ‘educatore teatrale’ o ‘animatore’ che dir si voglia (a seconda della dicitura che i miei datori di lavoro scrivevano in quei contratti rigorosamente co.co.pro) nelle scuole d’ogni ordine e grado: materne, elementari, medie e superiori, pubbliche, parificate e private. Ma era un’altra cosa. Anche se alcuni miei allievi abituati alle formule di rito mi chiamavano prof (o ‘maestro’ se si trattava di bambini), il lavoro che facevo era radicalmente diverso da quello del professore. Facevo un laboratorio teatrale, insegnavo a recitare, allestivo un saggio e facevo debuttare i ragazzi in scena davanti a un pubblico. Era un’avventura che, loro per primi, indipendentemente dalle mie qualità o capacità, vivevano come qualcosa di assolutamente esaltante. L’attività che gli proponevo era, a priori, una liberazione, una rottura della routine scolastica benedetta dal cielo. E quasi sempre le lezioni si svolgevano di pomeriggio, quindi al di fuori delle caselle costrittive dell’orario di scuola. In più, non era un’attività obbligatoria come le altre materie, non c’era uno scrutinio, un voto, un esame finale da sostenere. Erano loro a scegliere di farla, spontaneamente e liberamente.

Fare il professore sarebbe stato per forza diverso. Nessuna scelta: sarei arrivato lì e loro avrebbero dovuto accettarmi e sopportarmi, che lo volessero o no. Che lo volessero o no, si sarebbero dovuti sciroppare le mie lezioni di italiano, latino e quant’altro, sopportare i miei giudizi sui loro temi, sopportare i miei voti, sopportare le ore che il destino gli avrebbe imposto di passare con me.

Eppure insegnare, fare il professore, era il mio sogno da tanto tempo. Non mi ci sono trovato, non ho iniziato per caso e non è stata una scelta di ripiego. È un lavoro che ho cercato, che ho sudato per ottenere, che ho smaniato e sperato. Non so dire di preciso quando ho capito che mi piaceva davvero insegnare, che era il lavoro della mia vita. Credo sia stato ai tempi dell’università, più o meno a metà percorso, quando aiutavo amiche e amici di qualche anno più giovani di me a superare esami che avevo già sostenuto. Forse accadde proprio quel giorno torrido di inizio estate nel 1998, poco prima di partire per un viaggio assurdo che mi avrebbe portato fin nel deserto del Marocco. Una ragazza di cui ero perdutamente innamorato mi telefonò disperata e in preda all’ansia: doveva sostenere uno dei famigerati “esamoni”, quelli vecchio ordinamento che contavano in programma qualcosa come venti-venticinque libri. Mi chiedeva aiuto. Mosso più dall’amore che dalla voglia di passare una giornata di sole a ripassare un programma infinito e complicato, mi precipitai a casa sua. Iniziammo a ripassare. Lei mi disse quali erano i punti centrali in cui non riusciva a capirci niente. Provai a spiegarglieli con le stesse parole che conoscevo, con le stesse parole con cui avevo studiato quella roba due anni prima, con le stesse parole che avevo usato per ripeterle al professore il giorno del mio esame. Niente, non capiva. Non capiva proprio. Rispiegai, una, due, tre volte. Senza risultati. Cominciavo seriamente a innervosirmi. Come era possibile? Perché non capiva? Eppure quella roba l’aveva studiata, glie l’avevo ripetuta dieci volte, lei non era una stupida. E io non so davvero come, ma improvvisamente capii. Capii cosa volesse dire insegnare e perché mi piaceva così tanto. Capii che insegnare non voleva dire ripetere a una, dieci, venti, trenta persone delle nozioni nel modo e con le parole che io conoscevo, con le parole, gli schemi e le strutture che io sapevo. Capii che insegnare voleva dire esattamente il contrario. Capii che insegnare per prima cosa voleva dire essere lo studente dei tuoi studenti, nel senso che prima di tutto occorre capire chi hai di fronte, imparare il loro modo di pensare, di sentire, di vivere. E poi cercare il modo migliore per spiegargli le cose, che non è quasi mai il tuo modo, ma un altro, completamente diverso, che devi inventare, creare, modellare a seconda delle persone che hai davanti. Solo così le materie che insegni si accendono, diventano vive, generano interesse, entusiasmo, comprensione, stimoli continui. Così feci quel giorno. E quella ragazza capì, e superò brillantemente l’esame. E io provai una soddisfazione che non ho mai scordato. Credo davvero che quello fu il giorno in cui capii quale sarebbe stato il mio lavoro del futuro. Ma credo ugualmente che l’idea, e la voglia, di fare il professore sia ancora più antica, risalga addirittura ad anni indietro.

Università esclusa, dove ho macinato esami e voti altissimi come un carro armato, sono stato un pessimo studente. Alle medie e al liceo ero uno di quegli studenti discontinui e inclassificabili, insofferenti e casinisti. Potevo prendere 9 o 4 nell’arco di un giorno, a seconda di come mi girava. Facevo e studiavo solo le cose che mi piacevano e che mi entusiasmavano.Le altre, mi rifiutavo categoricamente. Poi ero furbo, perciò, quando le cose si mettevano male mi sottoponevo a pomeriggi devastanti di autotortura per recuperare i brutti voti. E per fortuna, ce l’ho sempre fatta. Credo che anche questo mio essere ‘studente schizofrenico’ sia stato determinante nella mia futura scelta d’insegnare. Perché non è che studiassi le cose che mi piacevano, ma le cose che mi facevano piacere. Mi spiego meglio. Oggi sono un professore di lettere. E la mia passione per la poesia, la scrittura, la letteratura, l’arte, è antichissima. Credo d’esserci nato. Non mi ricordo d’aver mai passato un giorno, negli ultimi trent’anni di vita, senza un libro in mano, senza aver scritto almeno un paio di righe. Ho sempre letto e scritto come un ossesso, incessantemente. Eppure anche in italiano e nelle materie che oggi insegno ho avuto i miei problemi. Perché più che la materia era determinante il professore. Mi spiego. Nel periodo delle medie leggevo qualcosa come quattro, cinque romanzi al mese. Eppure alla mia professoressa di lettere non importava niente. Avrei avuto miliardi di cose da dirle, miliardi di collegamenti, intuizioni, ricerche da proporre. Ma a lei interessavano le tabelle cronologiche delle dinastie carolingie e merovingie, a lei interessava che noi ripetessimo la vita del Manzoni con le sue stesse identiche parole, che commentassimo “I Promessi Sposi” con il suo stesso identico punto di vista. Come potevo studiare con passione? Come poteva interessarmi quella noia mortale? Come potevo trovare appassionante quel ripetere ossessivo mnemonico e nozionistico? E poi i temi. Adoravo scrivere, ma non c’era spazio per il nostro libero pensiero, potevo scrivere solo quello che la professoressa voleva scrivessi, quelle parole, quei pensieri. Non credo di aver mai preso più di un 6 striminzito. Anche il primo anno di liceo fu abbastanza simile. A differenza delle medie, studiai molto quell’anno, ma non certo per passione o per entusiasmo. Studiai per terrore, quel terrore incredibile che riesce a incutere a chiunque l’ambiente cupo e severo del liceo classico (quasi tutti i licei classici sono situati in ex conventi medievali, e sicuramente qualche aula era una vecchia stanza di tortura). In quinta ginnasio invece la mia vita cambiò. Mi ritrovai in sorte un professore di lettere che mi fece capire praticamente tutto. Un professore meraviglioso che s’interessava prima di tutto a noi, che non ci considerava dei numeri, che non era schiavo di voti e cifre, che ci invitava a tirare fuori i nostri pensieri e le nostre passioni. Posso dire senza esagerazioni che se non l’avessi incontrato la mia vita sarebbe senz’altro stata diversa. Se non l’avessi incontrato, probabilmente, la scuola sarebbe riuscita a uccidere per sempre le mie naturali passioni, la scrittura, la lettura, la poesia. Quell’anno meraviglioso che passai con lui mi fece capire il segreto: il mestiere del professore non è quello di dispensare il proprio sapere, ma quello di tirare fuori il meglio che abita nell’animo dei suoi studenti. E forse fu proprio durante quella indimenticabile quinta ginnasio che, pur se inconsapevolmente, decisi che da grande avrei insegnato anch’io.

Così a 28 anni appena compiuti iniziai a insegnare. Vista la situazione della scuola italiana, questo è un lavoro che inizia senza preavviso, improvvisamente, da un giorno all’altro. Prendi un’abilitazione, ti iscrivi alle graduatorie e poi aspetti, aspetti e aspetti. E proprio nel momento in cui proprio non ci pensi, una scuola ti chiama per offrirti un incarico immediato, sul momento. A me toccò l’incarico peggiore che può capitare a un professore esordiente: una sostituzione in corsa. Presi servizio il giorno 10 gennaio del 2005, alle otto e trenta del mattino. La classe era una terza, il numero degli alunni 27, la materia italiano. Ereditavo registri, voti e valutazioni di un’insegnante esperta e navigata che aveva appena ottenuto trasferimento in un’altra città. Un incubo. Dopo mesi e anni che sognavo e aspettavo questo lavoro, di colpo ero nel panico più assoluto. Abituati a una prof esperta, avrebbero senz’altro notato la mia inesperienza. Avrebbero fatto paragoni, l’avrebbero rimpianta, non sarei stato capace di fare un bel niente. Inoltre li avrei conosciuti nel momento peggiore: devastati da venti giorni di vacanze di natale, svogliati e per niente disponibili.

Ricordo che entrai in classe con le gambe che mi tremavano. C’era un brusio incessante, si stavano raccontando le vacanze, ridevano, scherzavano, si provocavano. Eccomi qua, avrei dovuto dire, sono lo stronzo che sostituirà la vostra amata prof, lo stronzo chiamato dal provveditore a interrompere questo vostro splendido momento conviviale. Non mi ricordavo nemmeno se dire buongiorno o buonasera. Non mi ricordavo nemmeno cosa fosse l’appello. Li salutai con la voce rotta in gola, calò un silenzio improvviso e insostenibile e io mi spaventai ancora di più. Dissi alcune cose vagamente insensate per cinque minuti, giocherellando ossessivamente con la penna per nascondere il mio imbarazzo. Volevo morire. Così non andava. Non andava proprio. Presi fiato e restai qualche minuto in silenzio, con i miei 27 alunni che si guardavano e mi guardavano spaesati e interrogativi. In quella pausa riaffiorarono come per magia nella mia testa immagini e sensazioni. Immagini e sensazioni di quella quinta ginnasio, immagini e sensazioni degli occhi dei miei compagni d’università mentre gli spiegavo gli appunti per gli esami, immagini e sensazioni degli studenti che avevo avuto a ripetizione. E capii che ero finalmente un professore e che non dovevo far altro che mettere in pratica le cose in cui avevo sempre creduto. Non dovevo far altro che guardarli negli occhi e partire da loro, dai miei splendidi 27 primi studenti. E uno per uno iniziai a chiedergli chi fossero, da dove venissero, che passioni avessero. Quando suonò la campanella nemmeno mi ero roso conto che fosse passata un’ora.

Quello fu un anno davvero magnifico. Indimenticabile.

Oggi, quasi sette anni dopo, ogni primo giorno di scuola, prima di mettere piede in una nuova classe, continuo ad avvertire quella vaga sensazione di tremore alle gambe. Non è terrore, ma voglia di far bene, voglia di essere con loro e non contro di loro. E oggi, quasi sette anni dopo, continuo ancora a fare la stessa cosa: parto da loro, da chi sono, cosa vogliono e cosa sognano. Parto da quel meraviglioso e infinito pozzo di luce, sensibilità e sorprese che sono i miei studenti, nuovi e vecchi, tutti quelli che ho la sfacciata fortuna di ricevere in dono dalla vita.

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