La perla

C’era, ai tempi dell’università, questa ragazza.
Mai saputo nemmeno come si chiamasse. Ma era bella, oh santo dio se era bella.
Bella di una bellezza arcaica e miracolosa, dolorosa e omicida, così potente da stroncarmi cuore e gambe ogni volta che capitava di incontrarla.
Una regina degli elfi con movenze da ballerina timida, pelle bianchissima e capelli neri che sapevano di brughiere perdute nel tempo.
E poi gli occhi, dio santo. Soprattutto gli occhi. Due pozzi immensi e senza fine di un azzurro ghiaccio immacolato e inquietante. Due miracoli sfacciati e impossibili che illuminavano universi e incendiavano praterie. Mai visti due occhi così. Mai più.
Non frequentava la mia università, ma succedeva lo stesso d’incontrarla spesso. Molto spesso. In quegli anni così assurdi i giri s’incrociavano di continuo e senza sforzi e lei, amica di amici di altri amici, mi si materializzava davanti in continuazione. Feste, locali, cineforum. Di continuo. Al punto che, senza esserci mai parlati né presentati, ogni volta scattava una specie di saluto strano e silenzioso. Un cenno, un movimento reciproco e impercettibile della testa e della mano, un ciao soffiato via dalla bocca muto e sibilante. E ogni volta un colpo improvviso al cuore, un tremore istantaneo da capo a piedi per quegli occhi impossibili, quella pelle di luna e madreperla, quei capelli notturni e rampicanti.
C’era in lei una sorta di incantata e straziante malinconia portata a spasso con garbo, che nello spazio di un niente sapeva mutare in gioia fuggevole e misteriosa che la illuminava dappertutto, dall’azzurro ghiaccio degli occhi ai segreti indicibili delle sue gambe leggere, dalle mani imprigionate nei sentieri dei maglioni di lana a quella sua schiena danzante che portava in dono notti insonni.
Non l’avvicinai mai. Mai.
Ogni volta, ogni santissima volta, c’era sempre qualcosa – una fidanzata vera o una fidanzata di una notte, la paura o la paralisi, il senso di inadeguatezza di fronte a tutto quello o chissà che altro – a frapporsi tra me e la strada per dare un nome e una voce a quegli occhi, quella pelle, quell’apparizione assurda e impossibile.
O forse ero io a non volerlo. Io a non volerle dare un nome, una voce, una storia. Io a difendere dalle storture della realtà quel sogno con la più disperata delle resistenze. Io a pensare che mai sarebbe stato più bello di così.
Fatto sta che l’università finì, di colpo i giri si dispersero, smisero d’incrociarsi e non la vidi più. Mai più.

Poi passano gli anni e succede.
Succede che tra mille chiacchiere mi finisce la birra. E quando l’amico che è con me nel locale saluta altra gente appena entrata, io ne approfitto per andare a ricaricare la pinta.
E succede che al bancone, pagato e rimesso il portafogli in tasca, mi volto e la vedo. Lei, proprio lei. Gli stessi occhi azzurro ghiaccio, la stessa incantata malinconia, la stessa pelle di madreperla, la stessa regina degli elfi.
E succede che stavolta, per la prima volta, senza indugi né tentennamenti, mi viene incontro e saluta. Nessun cenno, nessun movimento impercettibile. Il ciao è netto, scandito, inequivocabile. E per la prima volta sento la sua voce. Ed è una bellissima voce.
Segue un come stai e un che fai. La più normale della conversazioni, per due persone che un tempo, da giovani, si conoscevano e poi si sono perse di vista. Ma noi ci siamo persi di vista senza conoscerci, e il dialogo va avanti a strappi e balbettamenti, silenzi e vergogne, poche parole e tanti pensieri.
Poi lei dice “non sei cambiato per niente, sei uguale”. Ribatto che no, nemmeno tu sei cambiata, anche tu sei uguale.
Ma no, non è vero, ho detto una bugia. Non sei uguale. Sei ancora più bella, spaventosamente più bella di vent’anni fa. Ché io sì, ho sempre pensato che le donne diventino davvero belle solo dai trent’anni in su e tu no, non fai eccezione. Confermi la mia convinzione amplificandola all’infinito.
Ovviamente tutto questo non glie lo dico, ma lo penso.
Altre chiacchiere sparse. Poi a lei scappa di chiamarmi per nome. Così, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Smarrito, sgrano gli occhi e deglutisco, con la testa incasinata di perché. E inevitabilmente mi tocca chiedere: “Ma tu com’è che sai il mio nome?”.
Lei ride. Una di quelle risate che esplodono di colpo per giganteschi imbarazzi e fanno piegare la testa prima all’indietro e poi in avanti, come a cercare un nascondiglio nelle viscere della terra.
Riemerge soffiando via con una scrollata la cascata di capelli in cui si è imprigionata.
Riemerge e mi incolla addosso quei suoi occhi così tragicamente azzurri che sì, confermo, incendiano e dissetano, accarezzano e uccidono in un concerto di batticuori stroncando le leggi più elementari dell’esistenza.
Non ride più. E dice: “Certo che lo so. Come posso non saperlo? Per quattro anni non ho aspettato altro che mi venissi a parlare”.
Silenzio. I pensieri scoppiano e si frantumano in un bombardamento informe e ingovernabile di sensazioni e ricordi, un’ubriacatura vertiginosa e violentissima che risucchia e inghiotte come un vortice.
Non aggiunge altro e io non replico niente, ché no, non è davvero possibile dire niente.
Il silenzio dura un tempo che non so misurare. Fino a che non rompe quella bolla muta e immobile in cui siamo precipitati avvicinandosi, fino a essermi a un palmo. Il suo profumo è una scossa elettrica che brucia gli occhi.
Mi bacia sulla guancia, premendo con forza le sue labbra di pesca sulla mia pelle ruvida di barba. Paralizzato, immemore e stordito, non so ricambiare.
Sorride con l’incantata malinconia di sempre. “Buona serata”, dice sfiorandomi la mano.
In un attimo è già lontana. La guardo uscire dal locale. Fuori un uomo che l’aspetta le cinge le spalle con il braccio e abbracciati spariscono nella notte.
Torno di là. C’è altra gente assieme al mio amico e posso andarmene senza sensi di colpa.
Saluto, infilo il cappotto rovesciandomi in strada.
Fa freddo. Le temperature si sono schiantate in picchiata portando l’inverno, finalmente. Mi piace quest’aria pungente come uno spillo che pulisce e dappertutto sparge odori di rinascite. Non ne potevo più di quell’eterna stagnante stagione di mezzo.
M’incammino pensando all’inverno, ai quarant’anni che compirò quest’anno, ai suoi occhi azzurro ghiaccio, al suo nome che continuo a ignorare, all’infinita assurdità del tutto.
E non so davvero se tutta questa storia sia immensamente bella o immensamente triste.
O tutte e due le cose insieme.

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