Alice

Alice era pazza e aveva i capelli più belli del mondo.
D’un ramato accecante, ciocche morbide e disordinate le cascavano sul collo e sulle spalle nude come un miracolo d’altri tempi.
Piombò nella nostra misera provincia all’inizio di un autunno caldissimo dirompente come un uragano.
Era diversa da chiunque. A scuola non portava mai lo zaino, aveva altri libri, altre cose da imparare, altre strade da battere. Fischiettava e cantava a squarciagola per i corridoi, e se qualcuno la rimproverava lei esplodeva in una risata assordante e senza freni, mostrando all’inquisitore di passaggio la sua bocca aperta come un fiore, i suoi denti grandi e regolari, bianchissimi.
Parlava con chiunque, sgomitando e imponendosi con la grazia di un vento gentile. Non aveva dialetto, non aveva accento, parlava in uno strano e ignoto italiano pulito e poteva provenire da qualsiasi parte del mondo.
 
Era bellissima e ce ne innamorammo tutti quanti. Ma a perderci la testa fu Mario, che aveva qualche anno più di me, occhi grigioverdi e per primo mi aveva fatto ascoltare i Velvet Underground e i Jefferson Airplane.
Mario le scrisse una poesia stupefacente seduto e ubriaco su un tavolo graffiato d’un pub che oggi non esiste più. Glie la regalò infilata nel mezzo d’un libro di poesie di Kavafis e lei lo baciò, lo divorò e l’inghiottì.
Erano tragicamente belli insieme. Mi ricordo di loro una mattina di metà novembre che avevamo tutti fatto forca, arrotolati in un plaid a leggere un libro di Celine con una canna tra le dita e gli occhi scintillanti di emozioni che non si possono raccontare.
 
Poi iniziò la più grande ondata di occupazioni e manifestazioni degli ultimi trent’anni e tutti quanti ci travestimmo da rivoluzionari e tutti quanti decidemmo di doverci liberare di qualcosa. E Alice lo lasciò. Alice decise che quel rapporto era troppo stretto per il suo desiderio di cambiare il mondo. Mario soffrì, cercò di riprendersela con tutte le sue forze, ma lei era scappata via troppo lontano.
A primavera, quando al termine di un’assemblea infuocata di insulti decidemmo di continuare l’occupazione nonostante le minacce della polizia, Alice cacciò un urlo disumano e poi, con in mano un paio di forbici rimediate chissà dove, si tagliò tutti i capelli nel mezzo del corridoio.
E io ancora oggi, se penso alla rivoluzione, non riesco a trovare altre immagini per descriverla che non siano i capelli ramati e bellissimi di Alice sparsi a terra e recisi.
Alice, capelli a zero e salopette, si ubriacava ogni notte e ogni notte baciava tutti. E una notte baciò anche me, cogliendomi d’improvviso nel sonno arrotolato del mio sacco a pelo di fortuna.
 
Qualche mese dopo disse che così il mondo non sarebbe mai cambiato e abbandonò scioperi e manifestazioni. Cominciò a vestirsi solo di bianco e ad adorare un dio inventato da lei che aveva battezzato Boulè. Bagni di scuola e muri si riempirono di scritte in cui si diceva “Boulè è grande”.
Poi smise di parlare e smise di venire a scuola. Si ritirò in campagna a strigliare i cavalli dalla mattina alla sera.
Un giorno andai a trovarla, e cucinandomi pietanze immangiabili mi confidò che aveva regalato alle biblioteche pubbliche tutti i suoi libri e che non avrebbe letto più nemmeno una riga finché non si fosse sentita di nuovo pronta. Aggiunse che prima o poi sarebbe tornata a scuola e infine mi chiese di fermarmi a dormire. Scivolammo nello stesso enorme letto e lei mi disse: “Per favore, puoi dormire nudo?”. E poi aggiunse: “Però ti prego, non facciamo l’amore”. Così passammo la notte abbracciati e nudi senza fare niente.
 
Quando tornò a scuola le erano ricresciuti i capelli, più lunghi di sempre. Non adorava più il dio Boulè e le era tornata la parola. Io mi sarei diplomato di lì a poche settimane, a lei mancavano ancora due anni.
Una sera le offrii una canna e lei rifiutò, dicendomi che doveva rimanere concentrata sulla scuola. Poi mi prese il volto tra le mani e mi baciò con violenza. E dopo il bacio mi disse che il mondo era splendido.
 
L’anno dopo iniziò a pettinarsi i capelli e a vestirsi per bene. Quando la rividi quasi non la riconobbi. Aveva un fidanzato più grande che l’andava a prendere sotto casa con una specie di fuoriserie, frequentava i bar del centro e il sabato sera andava a ballare in minigonna e tacchi alti.
 
Poi mollò tutto di nuovo, prese il diploma e la patente e comprò un furgoncino Wolkswagen degli anni settanta e andò a girare per le feste d’estate a vendere bruschette.
La rividi un luglio torrido a un festival del rock. Era sdrucita e bellissima, i capelli di nuovo scarmigliati e sparpagliati in mille ciocche lucenti. Mi offrì dieci bruschette e due litri di vino rosso.
Ci baciammo per ore e poi andammo a stenderci sul suo furgoncino. Di nuovo nudi lei mi chiese di nuovo di non fare l’amore. Stordito dal vino mi addormentai senza nemmeno pensarci. E fu lei, Alice capelli ramati e scompigliati, a svegliarmi quasi all’alba, con la sua bocca affamata e di pesca a percorrermi tutto il corpo fino al mio sesso, fino a farmi tremare di brividi e piacere. La mattina dopo lei mi disse che doveva partire per un’altra festa e ci salutammo.
 
Alice venne a cercarmi qualche tempo dopo. Era appena cominciato l’autunno e pioveva forte. Mi telefonò da una cabina dicendo che era a pochi metri da casa mia e chiedendomi se poteva salire per un saluto. Aveva una maglietta bucherellata e una lunga gonna a motivi floreali. E grondava pioggia dalla testa ai piedi. Era bellissima come non lo era mai stata. Mangiammo spiedini di maiale, bevemmo litri di vino e parlammo pochissimo.
Quella volta facemmo l’amore tutta la notte. Selvatica, animalesca e primitiva, mi riempì di scosse elettriche e tremori d’emozione fino a farmi crollare esanime in un lungo sonno senza sogni.
Mi risvegliai a tarda mattina e lei non c’era più. Accanto a me un biglietto con scritto a grandi lettere: “Ciao, vado in Francia. Ti amo, il mondo è davvero bello.”
Non l’ho mai più rivista.
 
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