“L’INVENZIONE” DEL CRISTIANESIMO

A “inventare” il Cristianesimo, ovvero a fondare una religione regolata, autonoma e organizzata, non fu certo Gesù Cristo.

Il che può sembrare un singolare paradosso, mentre in realtà non è altro che la sintesi di un’analisi storica e oggettiva delle origini della religione attualmente più diffusa e praticata al mondo.

Una storia, quelle delle origini del Cristianesimo, tutt’altro che semplice e lineare, ma anzi contraddistinta, da subito, sin all’interno della ristrettissima ed elettiva comunità degli apostoli, da gravi conflitti e da una pluralità di interpretazioni e punti di vista assai difficili da conciliare.

Ma andiamo con ordine, iniziando dalla Palestina.

Ovvero: che cos’era la Palestina al tempo di Gesù di Nazareth e dei suoi primi discepoli?

La “pax augustea”, ovvero il ritorno alla pace e alla concordia sociale fortemente voluto da Ottaviano Augusto dopo oltre cento anni di guerre civili, aveva inaugurato, per Roma e per le sue province, un’epoca di stabilità e prosperità economica.

Eccezione assai problematica e spinosa a questo clima di serenità e crescita era proprio la comunità ebraica stanziata in Palestina. Nonostante la politica romana fosse da sempre rispettosa e tollerante verso i culti e le tradizioni dei popoli sottomessi, il popolo ebraico da un lato maltollerava la dominazione romana, dall’altro non riconosceva la suprema autorità dello Stato e dell’Imperatore, mettendo entrambi in posizione assolutamente subalterna rispetto all’osservanza delle proprie leggi e della propria religione.

Un clima di tensione continuo e crescente che raggiunse il suo apice proprio tra il I secolo a.c. e il I secolo d.c. Una situazione sociale esplosiva e turbolenta dove profeti e predicatori divennero importanti punti di riferimento per il popolo inquieto, e dove si fece particolarmente fremente l’attesa del “Messia”, ovvero “l’Unto” (in greco, appunto, “il Cristo”), colui che, secondo i libri profetici della Bibbia ebraica, sarebbe stato inviato da Dio con pieni poteri di giudizio sulla Storia per instaurare il Regno di Dio sulla terra.

Tuttavia, questo clima di generale ostilità verso i romani e di diffusa attesa dell’avvento del Messia, non si traduceva in un movimento compatto e unitario. Al contrario, la comunità ebraica era attraversata da divisioni continue e laceranti in correnti spirituali e fazioni politiche.

C’erano ad esempio i sadducei e la casta sacerdotale che propendevano per una collaborazione politica con i romani; i farisei che negavano qualunque tipo di contatto con i pagani; gli esseni che fondarono una comunità di tipo monastico, isolandosi dal resto della società in attesa del Messia (più di una fonte indica Giovanni Battista, e lo stesso Gesù Cristo, come esseni); gli zeloti, veri e propri attivisti politici, fomentatori di tumulti e rivolte continue in chiave antiromana (pare che Barabba, l’uomo salvato dalla Croce al posto di Gesù, fosse proprio uno zelota).

Gesù di Nazareth, inquadrato e indagato in un’ottica puramente storica, fu quindi uno degli esponenti più emblematici e importanti di questo particolare contesto turbolento e in fermento, una delle voci in qualche modo “contro”, nuova e rivoluzionaria, di un’area geografica ben delimitata e di un periodo in cui abbondavano e convivevano rivendicazioni sociali, tumulti e annunci profetici, spesso incrociandosi e sovrapponendosi e altrettanto spesso confondendosi.

Assoltamente impossibile, sempre storicamente parlando, poter capire Gesù Cristo, il suo ministero, il seguito e il consenso raccolto durante le predicazioni e il rapidissimo precipitare degli eventi con il suo arresto e la sua condanna a morte, senza iscrivere tutto questo nel delicatissmo, fragile e instabile momento storico in cui accadde.

Così come è altrettanto impossibile comprenderlo senza tener conto come la sua figura e, soprattutto, il suo ministero, sia perfettamente coerente e in linea con la millenaria tradizione ebraica dei profeti, personaggi da sempre votati, nel pieno rispetto della religione di Israele e della legge di Mosé, alla riscoperta e al rinnovamento della fede di Abramo. E personaggi, da sempre, particolarmente presenti in periodi storici particolarmente instabili e movimenti, come fu appunto quello di Gesù.

Quando, intorno ai trent’anni, Gesù (Yehoshua in ebraico) diede inizio al suo ministero spostandosi dalla sua regione d’origine, la Galilea, per vivere come un predicatore itinerante e raccogliendo attorno a sé un numero consistente di seguaci entro i quali si andò via via definendo un gruppo di dodici fedelissimi, si pose come ebreo che osservava la religione ebraica, come profeta nella tradizione dei profeti d’Israele.

E nonostante la sua parola fosse assolutamente rivoluzionaria – i concetti di perdono, redenzione e amore per il prossimo, chiunque esso fosse, nonché l’idea di un Dio non più vendicativo ma sostanzialmente misericordioso, erano di fatto sconosciuti alla tradizione israelitica – non vi era alcuna intenzione, da parte di Gesù, di fondare una nuova religione e di opporsi all’ebraismo.

Anche la più grande “eresia” agli occhi dell’ortodossia ebraica del tempo, che gli costò la condanna a morte e la crocifissione, ovvero l’essersi autoproclamato Messia d’Israele e Figlio di Dio, rispondeva assolutamente al verbo dell’ebraismo e alle aspettative del popolo praticante.

A dirlo, oltre l’analisi del contesto appena sintentizzata, sono le stesse fonti primarie del cristianesimo delle origini, ovvero i quattro vangeli canonici, che ci mostrano un Gesù mai realmente in contrasto con la religione ebraica né con la legge mosaica, ma anzi strettamente osservante di essa. In particolare nel Vangelo secondo Matteo si insiste continuamente su come Gesù, la sua persona e il suo operare sulla terra, rispondesse pienamente alle millenarie profezie ebraiche circa l’avvento del Regno dei Cieli sulla terra.

Anche gli “Atti degli apostoli”, ovvero quel libro (opera per molti studiosi dello stesso autore del Vangelo secondo San Luca) del Nuovo Testamento in cui si narrano le vicende degli apostoli dall’indomani della morte di Gesù fino alla prigionia di San Paolo a Roma, si muovono sostanzialmente su questa stessa linea, mostrandoci, almeno nei primi capitoli, la piccola comunità dei discepoli vivere a Gerusalemme sotto la guida degli apostoli Pietro e Giacomo, in piena comunione dei beni, osservando la legge mosaica in ogni suo aspetto e attendendo la “parusìa”, ovvero la venuta definitiva di Gesù e l’attuazione del regno.

Non vi era quindi traccia, né durante la vita del Cristo, né negli anni immediatamente successivi alla sua morte e durante le prime predicazioni di Pietro e degli altri suoi apostoli, di una nuova religione, né dell’intenzione di fondarla.

Gesù, i suoi fedelissimi discepoli e i suoi seguaci (in numero in realtà assai inferiore a quanto possiamo immaginare) erano semplicemente una “setta” in seno all’ebraismo, un modo di intendere la religione ebraica che in alcune questioni fondamentali si scontrava con l’ortodossia dei sacerdoti del sinedrio e che, soprattutto, riconosceva in Gesù il Messia di Israele. Un progetto – tanto per usare definizioni moderne – di “riforma” dell’ebraismo piuttosto che di scissione da esso. Che, non a caso, tanto nelle predicazioni del Cristo quanto, soprattutto, nelle prime azioni di Pietro e degli altri apostoli, era rivolto esclusivamente ai giudei.

A “inventare” il cristianesimo, a trasformare cioè la piccola setta giudaica degli adepti di Gesù in religione autonoma e assolutamente separata dall’ebraismo – e addirittura in aperta opposizione con esso – sarà l’intervento di Paolo di Tarso, futuro San Paolo.

La tradizione è arcinota: Paolo, dapprima persecutore dei cristiani, pochi anni dopo la morte di Gesù, tra l’anno 35 e l’anno 40, si convertì di colpo per un’improvvisa folgorazione sulla strada per Damasco. Da quel momento, di sua iniziativa e in piena autonomia, senza aver mai visto né conosciuto Gesù e gli apostoli, iniziò opera di predicazione e conversione.

Paolo, per forza di cose, non può che dare un’interpretazione del tutto personale del messaggio di Cristo. Non tanto, e non solo, perché egli è al di fuori della comunità degli apostoli, quanto, e soprattutto, perché la sua cultura è completamente ellenistica, lontana anni luce da quella ebraica e, inevitabilmente, il cristianesimo di Paolo sarà una sovrapposizione, o se si preferisce un compromesso, tra il messaggio originario dei Vangeli e la cultura greco-orientale.

Prima di tutto Paolo non considera Gesù il Messia esclusivo di Israele ma, come sarà per il cristianesimo fino ai giorni nostri, lo vede come il Salvatore dell’umanità intera. Per questo le predicazioni e le conversioni di Paolo, che non era giudeo, da subito si rivolsero anche, e soprattutto, al mondo ellenistico e pagano. Un mondo su cui, l’interpretazione particolare che dava Paolo del verbo di Gesù, aveva presa facile. Gesù era infatti presentato come un dio-eroe della mitologia greca, un semidio calato dal cielo per redimere l’umanità col proprio sacrificio.

Una visione in cui perde progressivamente importanza il ministero di Cristo, ovvero la sua concreta azione sulla terra: conta al contrario il concetto simbolico, e astratto, di “liberazione” dal peccato. Di conseguenza, anche ai fedeli e ai convertiti, più che azioni concrete si chiede e si pretende voto di obbedienza e professione di fede.

Gli apostoli, ovviamente, sulle prime (sono gli stessi “Atti” a testimoniarlo) cercano di opporsi in tutti i modi all’eresia di Paolo. Se da un lato accettano che la parola di Gesù venga insegnata anche ai pagani e ai non giudei, dall’altro esigono che i neoconvertiti si circoncidano e si adeguino alla legge mosaica. Dettagli non da poco. In sostanza gli apostoli chiedono ai pagani una conversione all’ebraismo e alle sue leggi. Non c’è ancora in loro, a differenza di Paolo, l’idea di una nuova religione.

Visto il successo delle predicazioni di Paolo e del numero impressionante di nuovi adepti portati a conoscenza della parola di Gesù, uno strappo sarebbe controproducente. Perciò, al fine di trovare un compromesso tra le tendenze giudaiche delle origini e quelle ellenistiche di Paolo, viene convocato un Concilio a Gerusalemme, tra Paolo da una parte e gli apostoli Pietro e Giacomo dall’altra.

Il risultato del Concilio vede sostanzialmente prevalere le posizioni degli apostoli: i pagani neoconvertiti potranno non circoncidersi, ma dovranno ugualmente sottostare alla legge mosaica. Di fatto, il cristianesimo continua a non essere una religione autonoma e indipendente dall’ebraismo.

Questo tuttavia esclusivamente in linea teorica.

In pratica, nonostante il concilio e nonostante il compromesso raggiunto, Paolo da una parte e la comunità giudaica dall’altra continuano a procedere per la propria strada, spesso in aperta polemica l’una con l’altra. A testimoniarlo le stesse lettere di San Paolo riportate nel Nuovo Testamento. La prima Lettera ai Galati è, in questo senso illuminante: ammonisce chi si lascia persuadere dai predicatori giudaizzanti e ricorda: “se qualcuno predica un Vangelo diverso dal mio, sarà scomunicato”.

Del resto, sono gli stessi vangeli canonici (in particolare i tre sinottici, ovvero Marco, Matteo e Luca, così detti perché, dal punto di vista della scansione narrativa sostanzialmente concordi e quasi sovrapponibili) ad evidenziare tra le righe tale dissidio alle origini della religione cristiana. Se Matteo, come si ricordava prima, è chiaramente opera di un giudeo e fautore di una ideologia molto vicina alle origini, Luca è apertamente filoromano, ridimensiona le responsabilità romane nella morte di Gesù e si rivolge al mondo ellenistico e romano. Se Matteo – come anche Marco – proviene dall’ambiente delle comunità di Gerusalemme, Luca è di chiara impronta paolina.

Il serrato dibattito tra la posizione giudaica e quella paolina proseguì ancora per qualche anno, fino a che non si impose completamente la linea di Paolo, più adattabile e sovrapponibile con la cultura dell’Impero romano e con il paganesimo in genere. Più pronta ad assorbire in sé un numero sempre maggiore di fedeli. Ma anche più lontana, estremamente più lontana, dagli insegnamenti originari di Gesù.

La morte degli apostoli e di tutti coloro che avevano conosciuto direttamente Gesù accelerò il processo, e già nella seconda metà del I secolo d.c., il cristianesimo si presentava come nuova religione indipendente dall’ebraismo e si andava definendo con caratteristiche del tutto nuove.

La stessa idea di “chiesa” e di “comunità” era completamente differente: al concetto “orizzontale” di Gesù, ovvero di vita semplice e povera in comunità di beni e in totale uguaglianza tra fedeli si andava sostituendo, ricalcata sul concetto gerarchico delle divinità greche,un’idea “verticale” e verticistica della chiesa, con una serie di figure intermedie (santi, papi, vescovi, sacerdoti) a fare da tramite tra Dio e gli uomini.

Si andava inventando, in definitiva, il Cristianesimo più o meno come lo conosciamo oggi, almeno nelle sue fondamenta, edificate, questo sì, un paradosso, più sull’interpretazione di San Paolo che sulla parola originaria di Gesù.

Non sta a noi, e non certo in questa sede, dire quanto il Cristianesimo ufficiale, seguendo i dettami paolini si sia allontanato dall’essenza del messaggio di Cristo.

Certo è che, sempre parlando dal punto di vista strettamente storico e sempre evidenziando insostenibili paradossi, ogni qual volta, nel corso dei secoli, un singolo o una comunità intera, hanno proposto un ritorno al cristianesimo delle origini e ai dettami originari di Gesù, il Cristianesimo li ha bollati come eretici, spesso e volentieri perseguitati e repressi nel sangue.

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