L’enigma dei vangeli

Chi ha scritto i quattro Vangeli “canonici” che costituiscono la parte più importante e consistente del Nuovo Testamento? Quando sono stati scritti? Dove? In che lingua? E soprattutto perché nel corso dei secoli, tra i molti esistenti, la Chiesa ha deciso che proprio questi quattro dovessero entrare a far parte del canone della Bibbia, considerandoli direttamente “ispirati” da Dio?

Sono tutte questioni fondamentali per capire, o almeno provare a farlo, l’origine, la composizione e la diffusione di testi che, indipendentmente dalla fede e dalla religione di ognuno, rappresentano un punto cruciale e imprescindibile alla base della nostra cultura.
Questioni che, da sempre, costituiscono un autentico rompicapo storico e storiografico.
Un “enigma” in piena regola che, benché ancora privo di risposte certe e definitive, è senza dubbio affascinante, e importante, conoscere e cercare di ricostruire.

Partiamo dalla fine.
La definizione definitiva del canone cristiano della Bibbia, ovvero la decisione circa quali testi dovessero andare a comporre il Nuovo Testamento, fu tutt’altro che rapida, tutt’altro che semplice e tutt’altro che priva di polemiche e dissidi. Essa avvenne soprattutto nel corso del IV secolo, a seguito del concilio di Roma (382 d.c.) e di ben quattro sinodi, al termine dei quali papa Innocenzo I riconobbe i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni come canonici. Ma soltanto in seguito alla riforma protestante, ovvero in pieno XVI secolo, il canone biblico delle varie professioni cristiane divenne ufficialmente un dogma. Dogma che, tuttavia, riguardo ai Vangeli non introdusse sostanzialmente alcuna novità particolare, limitandosi a ufficializzare come verità rivelata quanto già stabilito nel IV secolo.
Le decisioni prese dal concilio di Roma e dai quattro sinodi che seguirono si basavano a loro volta sul cosiddetto “Canone muratoriano” (così detto poiché scoperto dall’erudito Ludovico Antonio Muratori nel XVIII secolo), un manoscritto anonimo e lacunoso (oltre ad alcuni passaggi centrali sono andati perduti sia l’inizio sia la conclusione), traduzione latina di un originale redatto in lingua greca (interamente perduto) e databile intorno al 170 d.c.
Il manoscritto, facendo riferimento al pontificato di papa Pio I (142-157), è la più antica lista a noi nota dei libri del Nuovo Testamento. Un elenco, che si intende dettato dalla volontà di Pio I, in cui l’autore indica come canonici quattro Vangeli: Luca, Giovanni più altri due i cui nomi non sono più leggibili. Ma è più che probabile che i due nomi presenti nella parte mancante del manoscritto fossero proprio quelli di Marco e Matteo, visto che nell’intervallo di tempo che separa il pontificato di Pio I da quello di Innocenzo I non vi sono notizie o documenti di rilievo circa altri Vangeli accettati come canonici dai vertici ecclesiastici.
Al di là dei nomi degli evangelisti, il “Canone muratoriano” contiene, soprattutto, i criteri per la selezione dei testi canonici, ovvero l’antichità e il legame diretto con la predicazione degli apostoli.
Un altro criterio di selezione pare rispondesse a una precisa simbologia numerologica. Sempre nel II secolo infatti, il teologo francese Ireneo di Lione sostenne che i Vangeli dovessero essere necessariamente quattro. Scrive Ireneo: “poiché il mondo ha quattro regioni e quattro sono i venti principali, il Verbo creatore di ogni cosa rivelandosi agli uomini, ci ha dato un Vangelo quadruplice, ma unificato da un unico Spirito”. Nello stesso documento il teologo bolla come eretici tutti quei cristiani che usano Vangeli in numero differente da quattro.

Sulla base di queste prime informazioni è quindi possibile, con una certa approssimazione ma in maniera già sostanzialmente soddisfacente, tracciare una linea storica e cronologica circa la formazione e la stabilizzazione del canone evangelico. A metà del II secolo, probabilmente a causa del numero elevato di testi allora circolanti sulla vita di Gesù, l’esigenza di sistemazione, di scrematura e di stabilire quali potessero essere considerati sacri e quali no, si fece particolarmente urgente, al punto da spingere papa Pio I a operare in tal senso. A quanto sembra non fu, quella di Pio I, tanto una “legge ufficiale” in senso stretto, quanto più un’indicazione. Indicazione, ad ogni modo, assai efficace e decisiva, al punto da sedimentarsi e restare inalterata, fino a essere ufficializzata da Innocenzo I due secoli più tardi e a farsi dogma nella seconda metà del XVI secolo.

Di tutto questo, ciò che più colpisce e soprattutto ciò che più ci interessa sono, ovviamente, i criteri di selezione dei Vangeli canonici.
Lasciando per ora da parte la numerologia mistica e l’allegoria del numero quattro, i criteri voluti da Pio I e confermati nei secoli successivi sembrano rispondere anche – forse soprattutto – a un’esigenza “storicistica”, oltre che strettamente religiosa e teologica. Si chiede infatti il requisito di “antichità”, ovvero il legame diretto con gli apostoli e la loro cerchia. Si chiede, in sostanza, che i Vangeli scelti possano essere considerati a tutti gli effetti fonti storiche primarie.

Quello della datazione dei Vangeli è in effetti il primo vero rompicapo che ci troviamo davanti.
Dei Vangeli, sia quelli canonici sia tutti gli altri (genericamente definiti, nel loro insieme, “apocrifi”, termine onnicomprensivo che sta a significare “falsi” o, più specificatamente, “sulla cui fede non si può fare affidamento”), possediamo una discreta quantità di manoscritti. Manoscritti che tuttavia risultano essere quasi sempre trascrizioni e copie successive di originali andati irreparabilmente perduti.
È perciò molto difficile, a volte impossibile, datare con certezza la prima stesura di ogni Vangelo, se non ovviamente per via ipotetica e con una certa approssimazione. Inoltre, cosa forse ancora più rilevante, è davvero arduo stabilire se, e soprattutto come, la trascrizione successiva sia effettivamente copia conforme all’originale oppure una sua rielaborazione più o meno libera (basti pensare che per un discreto lasso di tempo è stata accettata la versione del Vangelo secondo Luca diffusa a partire dal 140 d.c. dal teologo Marcione, il quale lo aveva rielaborato in piena libertà rimuovendo tutte le parti non conformi ai propri insegnamenti).

Detto e premesso tutto questo, gli studi più accreditati e accettati in materia (c’è ovviamente sull’argomento una bibliografia sterminata, e in questa sede mi limito a rimandare a quella fornita da Marcello Craveri nell’edizione Einaudi dei “Vangeli apocrifi”) sono ormai giunti a delle datazioni di massima che, pur non risolvendo completamente il problema, chiariscono comunque molte questioni.
Anzitutto è indispensabile fare un minimo d’ordine nello sterminato e confuso magma di Vangeli esistenti.
Come prima cosa escludiamo da questa sede e da questo dibattito tutti quei Vangeli di varia provenienza (greca, araba, siriana, egizia… ) la cui stesura originale è collocabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, dal III-IV secolo in poi. Un’esclusione dettata da ovvie ragioni: la distanza cronologica dal ministero di Gesù e degli apostoli inizia a essere davvero consistente, per cui non solo non possono essere ritenuti né fonti primarie né vagamente riconducibili a esse, ma soprattutto entriamo in un periodo storico in cui la Chiesa cristiana, intesa come fenomeno organizzato, radicato e con una sua precisa gerarchia, è una realtà di fatto già comprendente un numero enorme di fedeli in ogni territorio dell’Impero Romano (sia quello d’Oriente, sia quello d’Occidente), al punto che i vari Vangeli scritti a partire da questo periodo non annunciano al mondo un nuovo Verbo, ma interpretano a loro modo una storia che è già tradizione sedimentata.

Fatta questa scrematura, e prendendo di conseguenza in esame esclusivamente i Vangeli scritti entro il II secolo, resta un corpus di testi che possiamo così ordinare:
i quattro Vangeli canonici, la cui redazione definitiva è databile tra il 65 e il 110 d.c.;
il cosiddetto “protovangelo di Giacomo”, un Vangelo non apocrifo ma “extracanonico”, ovvero non contenuto nel Nuovo Testamento ma ugualmente accettato dalla Chiesa (da esso sono tratte tutte le informazioni circa l’infanzia di Maria, nonché svariati elementi relativi alla tradizione del presepe) databile tra il 100 e il 150 d.c.;
i cosiddetti “Vangeli giudeo-cristiani”, vale a dire un gruppo consistente di Vangeli apocrifi scritti in seno alle prime comunità cristiane della Palestina, o comunque fortemente dipendenti da essi, dove l’osservanza della legge mosaica è elemento fondamentale e imprescindibile, anch’essi databili tra il 100 e il 150 d.c.;
i “Vangeli gnostici”, ovvero quel gruppo di Vangeli apocrifi riconducibili alla filosofia gnostica, che tendono più a riportare detti e discorsi di Gesù (con un linguaggio da iniziati, misterico ed esoterico) che a narrarne la vita; anche per questi Vangeli la datazione è la prima metà del II secolo, con eccezione del “Vangelo secondo Tommaso” che potrebbe essere anche precedente.

Appare quindi chiaro come tutti questi scritti siano riconducibili al medesimo periodo e come, di conseguenza, tutti possano essere parimenti ritenuti delle “fonti primarie”. Perciò è più che legittimo supporre che, nel processo di individuazione e selezione dei Vangeli canonici, oltre al principio di antichità e di legame con la comunità degli apostoli, siano intervenuti anche altri criteri.
Ma procediamo con ordine. Al di là delle datazioni, vi sono altri elementi che mettono in stretta relazione i canonici con i gruppi apocrifi sopra ricordati. Prima di tutto, i nomi degli autori cui risultano attribuiti.
A riguardo non vi è alcuna certezza, ovvero si tratta di attribuzioni dettate esclusivamente da una tradizione secolare mai confermata dalle fonti. Una tradizione che attribuisce il Vangelo secondo Matteo all’apostolo Matteo, quello secondo Giovanni all’apostolo Giovanni, quello secondo Luca a uno dei principali discepoli di san Paolo e quello secondo Marco al cugino di Barnaba e discepolo prediletto di san Pietro. Che siano poi effettivamente loro gli autori dei testi che portano i loro nomi non sempre sembra probabile (anzi, nel caso di Matteo gli studi più accreditati lo smentiscono categoricamente). Quei nomi illustri potrebbero indicare anche un discepolo o un seguace a loro particolarmente vicino oppure semplicemente che il testo ha avuto origine nell’area geografica della loro predicazione.
Ad ogni modo, in ognuna delle tre ipotesi, l’unica cosa certa è proprio il legame molto stretto con le prime predicazioni apostoliche, ovvero uno dei principali criteri richiesti per la selezione. Ma seguendo questa strada, oltre ai quattro canonici, anche altri apocrifi possono vantare un nome illustre attribuitogli dalla tradizione. Allo stesso modo il protovangelo di Giacomo, o il Vangelo gnostico di Tommaso, se non sono stati scritti dal pugno dei due apostoli, sono comunque riconducibili a loro discepoli o alla loro area di influenza. Ovvero, anche questi apocrifi risulterebbero strettamente legati all’azione degli apostoli.
Di conseguenza, torniamo a ripetere, oltre a quelli indicati nel canone muratoriano e attribuiti alla volontà di Pio I, devono essere necessariamente intervenuti altri criteri di scelta.

Ultima – e assai complessa – questione da affrontare prima di provare a tracciare alcune conclusioni è quella relativa alla lingua. La lingua delle redazioni definitive dei quattro Vangeli canonici, nonché degli apocrifi che maggiormente ci interessano, è il greco, ovvero una lingua diversa da quella di Gesù, degli apostoli e di tutte le primissime comunità cristiane, che era, come sappiamo, l’aramaico.
La scelta del greco, all’epoca vera e propria “lingua franca” di tutta la parte orientale dell’Impero nonché lingua ampiamente compresa, parlata e studiata anche a occidente, pare rispondere a un’esigenza assolutamente pratica: ottenere attraverso quella lingua la massima diffusione possibile del Verbo di Gesù Cristo in tutti i territori dell’Impero.
Perciò è assolutamente probabile che le redazioni definitive dei quattro canonici (quelle, per intenderci, che leggiamo ancora oggi nel Nuovo Testamento), nonché degli apocrifi in questione, tutte databili, come già ricordato, tra il 65 e il 150 d.c., siano traduzioni (o rielaborazioni) di originali aramaici. Oppure che siano sistemazioni finali di un materiale circolato oralmente (o sotto forma di testi anonimi, collettivi e primitivi, sempre in aramaico) nelle prime comunità cristiane.
Nell’uno o nell’altro caso, quanto conformi all’originale non ci è proprio dato sapere.
Soprattutto, nell’uno o nell’altro caso, risulta assai probabile la presenza di un originale aramaico, sorto in seno alle comunità giudaico-cristiane, interamente perduto.
Da un lato sono gli stessi Padri della Chiesa, tra il III e il IV secolo (che a questo punto possiamo a ragione definire come i secoli più decisivi per la formazione del cristianesimo “ufficiale”), a parlare diffusamente (senza però citarne alcun passo) di un originario “Vangelo degli ebrei” da cui deriverebbero tutti gli altri Vangeli. Oppure a parlare in maniera più ristretta di questo Vangelo originario come il prototipo del futuro Vangelo secondo Matteo (non a caso, visto che il testo attribuito a Matteo è, per cultura e contenuto, quello più vicino alle consuetudini e alle regole del cristianesimo giudaico delle origini).
Dall’altro, la strada di un originale aramaico perduto è battuta con convinzione in tempi recenti dai principali studi in materia. La stragrande maggioranza degli esperti è ormai concorde nel sostenere l’esistenza di una fonte originaria perduta: la cosiddetta “Fonte Q”.
Tale fantomatica fonte, tra le altre cose, come si può vedere nell’immagine qui sotto, chiarirebbe i rapporti tra tre dei quattro Vangeli canonici, nonché la loro successione cronologica. Infatti, tre dei quattro canonici (Marco, Luca e Matteo) sono detti anche “sinottici”, ovvero testi il cui contenuto e la successione cronologica degli eventi narrati è sostanzialmente concorde e sovrapponibile, al punto da far supporre inevitabilmente un rapporto di reciproca dipendenza tra di essi.
Il Vangelo secondo Marco è comunemente indicato come il più antico in assoluto, sia per lo stile (più sintetico, rozzo ed elementare, per cui i due sinottici successivi, in particolare quello di Matteo, sembrano raffinarlo stilisticamente), sia soprattutto perché identico materiale è presente sia in Luca che in Matteo. Mentre, viceversa, vi sono degli episodi presenti esclusivamente in Matteo e altri esclusivamente in Luca. Questo avrebbe portato gli studiosi a concludere che Marco (presumibilmente composto tra il 65 e l’80 d.c.) avrebbe fatto da fonte e da modello alle stesure di Matteo e Luca (di poco successive). E il materiale presente esclusivamente in Matteo o esclusivamente in Luca, ma non in Marco, sarebbe tratto dalla “Fonte Q”.
Resta fuori da questa soluzione il Vangelo secondo Giovanni, il più tardo tra i quattro, che differisce sia per contenuto, sia per struttura (è maggiormente attento ai detti e alle parabole di Gesù piuttosto che alla narrazione cronologica del suo ministero).

Per concludere, proviamo a questo punto, sulla base di tutti gli elementi fin qui raccolti, a tirare le fila e ad azzardare alcune conclusioni, o quanto meno alcuni suggerimenti e spunti di riflessione.

Punto primo. Per quanto irrimediabilmente perduta, pare essere certa l’esistenza, alla base e alla origine della stesura di tutti i Vangeli, e quindi di tutta la letteratura cristiana futura, di una fonte originaria in aramaico. Forse diffusa soltanto oralmente, forse scritta. Possiamo identificarla in quel “Vangelo degli ebrei” ricordato dai Padri della Chiesa, possono appartenere ad essa i vari frammenti rinvenuti dei vangeli apocrifi risalenti alle comunità giudaico-cristiane o possiamo chiamarla genericamente, come gli studiosi moderni, “fonte Q”: resta il fatto che la sua esistenza è più che probabile, che fosse in lingua aramaica e che provenisse dall’ambiente protocristiano delle prime comunità della Palestina, negli anni immediatamente successivi alla morte di Gesù.

Punto secondo. Tale fonte è stata senz’altro materiale comune cui hanno attinto i Vangeli più antichi. Senz’altro i sinottici, tra cui quello più arcaico è quasi certamente quello di Marco, a sua volta fonte e modello per Luca e Matteo. E non è affatto escluso che anche le redazioni originarie dei tre sinottici fossero originariamente in aramaico, e solo successivamente tradotti in greco per meglio diffonderli presso le comunità cristiane dell’Impero. Così come non è escluso che la “Fonte Q” e tutto ciò che può celarsi dietro questo nome misterioso possa essere stata una base di informazioni anche per alcuni apocrifi (il protovangelo di Giacomo e quelli giudaico-cristiani).

Punto terzo. Il Vangelo secondo Giovanni ha ben poche analogie, di stile e contenuto, con gli altri canonici. Viceversa, somiglia molto a quel gruppo di apocrifi che abbiamo definito “Vangeli gnostici”. Non è quindi escluso che sia lo gnosticismo il contesto di provenienza del quarto Vangelo canonico.

Punto quarto – e ultimo. Di sicuro i quattro Vangeli canonici sono stati scelti per i criteri indicati da Pio I, ovvero antichità (sono effettivamente i più antichi) e legame con gli apostoli (è senz’altro da quel contesto che provengono, anche se gli estensori definitivi probabilmente non furono testimoni oculari della vita di Gesù).
Ma non solo. È quanto meno legittimo il sospetto che sia subentrato un criterio, diciamo così, “politico”. Ovvero che si siano voluti escludere tutti quei Vangeli “scomodi”, quei testi cioè dove il messaggio di Cristo, la sua figura e il suo avvento risulta troppo legato alla storia, alla legge e alla tradizione religiosa del popolo ebraico.
Tra il I e il II secolo infatti, si compie quella “rivoluzione” voluta da San Paolo che trasformò il cristianesimo da costola (o setta) dell’ebraismo, a uso esclusivo del popolo ebraico, che si proponeva di riformarlo, a religione autonoma e universale, in aperto contrasto con l’ebraismo stesso.
Per recidere quindi l’ingombrante cordone ombelicale con l’ebraismo, vengono eliminati tutti quei Vangeli strettamente legati alle origini giudaico-cristiane (l’intero corpus degli apocrifi ebraici), mentre vengono accettati Vangeli più “romanizzati”, più concilianti nei confronti dei romani e meno severi nel giudicare le loro colpe circa la crocefissione e, soprattutto, meno legati alla visione ebraica. E non è affatto escluse che le versioni definitive in nostro possesso dei canonici, siano delle “correzioni” o “riscritture” operate proprio sulla base di questa necessità.
I vangeli gnostici invece, probabilmente furono esclusi dal canone per altra ragione ancora: il loro tono “misterico” poteva dare origini a interpretazioni contraddittorie e difficilmente controllabili del messaggio di Cristo. Ma siccome lo gnosticismo, e in generale le filosofie esoteriche, riscuotevano grande successo presso le classi sociali “alte”, non è escluso che il Vangelo secondo Giovanni appartenesse in tutto e per tutto al gruppo dei Vangeli gnostici, e che sia stato inserito nel canone sia per raggiungere il simbolico “numero 4”, sia soprattutto per attirare tra i fedeli gli strati più ricchi e abbienti della società e dare un maggior spessore “politico” alla nuova religione.

Solo ipotesi, ripetiamo. Ipotesi che non possono, soprattutto in questa sede, dare altro che suggerimenti, indicazioni, spunti di dialogo, indagine e riflessione.
Nessuna certezza, laddove l’unica certezza, in una storia come questa, è l’indiscusso fascino che da oltre duemila anni continua ad esercitare.

#inostriantenati
#storieRiccardoLestini

**tutti i lunedì, in questo blog, si parla della Grande Storia nella rubrica “I Nostri Antenati”. Per leggere le puntate precedenti: www.riccardolestini.it
Ti aspettiamo lunedì prossimo, 6 marzo, con “Il processo a Maria Antonietta”.
Non mancare!

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