«La più gran puttana che fosse in Roma» (in difesa di Lucrezia Borgia)

Quando la Rivoluzione Francese processò Maria Antonietta, Hébert, leader del partito parigino degli “arrabbiati” (la frangia in assoluto più estrema e intransigente dell’intero movimento rivoluzionario), pur essendo molto più che scontato l’esito del processo, volle a tutti i costi incentrare l’intero dibattimento in tribunale sulla presunta condotta immorale, libertina e scandalosa dell’odiatissima ex regina, e mandarla a morte, oltre che per “alto tradimento nei confronti del popolo e della nazione di Francia”, anche (forse soprattutto) per “oscenità”.
Pur con una quantità impressionante di prove fasulle e palesemente costruite ad arte da Hébert, Maria Antonietta fu effettivamente mandata alla ghigliottina anche con quest’accusa infamante.
“Come Lucrezia Borgia”, si legge nella sintetica e lapidaria motivazione della sentenza.
Come se il paragone con la celebre terzogenita di papa Alessandro VI, nonché sorella minore dell’ancor più celebre duca Valentino, ovvero Cesare Borgia, le cui spietate efferatezze sono ricordate con ambigua e malcelata ammirazione da Machiavelli nel “Principe”, bastasse da solo e più di ogni prova, agli occhi del popolo di Francia, a suffragare tale accusa.

A circa trecento anni di distanza sopravviveva quindi, tanto nelle classi sociali colte quanto nel popolo, la “leggenda nera” di Lucrezia Borgia.
Non c’è troppo da stupirsi. Ancora oggi il nome di Lucrezia Borgia è sinonimo di ogni genere di nefandezza e perversione sessuale. Eppure, strano a dirsi, non vi è una sola fonte, un solo documento che possa, anche solo in minima parte, dimostrare la presunta condotta sregolata e perversa della donna. Anzi, le numerosissime testimonianze contemporanee la smentiscono categoricamente: le accuse e le ingiurie lanciate alla Borgia, spesso anche da voci illustri, non riportano mai alcun dato concreto, ma restano nel campo della pura diceria e del puro pettegolezzo, quasi sempre dettati da odio e rivalsa politica più contro la sua famiglia che contro la donna in sé, al punto da renderle nella quasi totalità dei casi fonti completamente inattendibili.
Nonostante questo, la leggenda di Lucrezia come “Messalina del Rinascimento”, ha attraversato i secoli, tramandata di generazione in generazione, alimentando fantasie letterarie e finendo in qualche modo per storicizzarsi.

Tra le accuse più gravi e infamanti vi è quella di incesto, che ritroviamo, tra le altre, nelle parole di letterati come Francesco Guicciardini e Jacopo Sannazzaro (fu quest’ultimo a definirla “figlia moglie e nuora” di papa Alessandro VI). In entrambi i casi però, non siamo davanti a informazioni di prima mano, ma a rielaborazioni posteriori di dicerie non documentate. Soprattutto, siamo davanti a due letterati palesemente e dichiaratamente antiborgiani, che utilizzano tali voci per screditare la famiglia del pontefice.
Ma dove e quando ebbe origine la storia che voleva Lucrezia amante del padre e del fratello?
Fu il suo primo marito, il conte di Pesaro Giovanni Sforza, cui papa Alessandro VI l’aveva data in moglie a soli tredici anni per ragioni di alleanze politiche, a lanciare quest’accusa.
Durante la I guerra d’Italia conseguente alla discesa di Carlo VIII e alle rivendicazioni francesi su Napoli, con papa Borgia al centro di un complesso e mutevole sistema di alleanze tra i vari stati italiani, la condotta di Giovanni Sforza fu spesso ambigua e contraddittoria, facendo più volte mancare all’illustre suocero il sostegno militare di cui lo Stato Pontificio aveva bisogno.
Il papa si vendicò allora trattenendo la figlia a Roma e impedendole di tornare a Pesaro. Quindi, ripudiò il genero e dichiarò nulle le nozze. Affinché il matrimonio potesse essere effettivamente annullato, Alessandro VI lo dichiarò “non consumato”, accusando lo Sforza di “impotenza”.
Il processo di annullamento, ovviamente manovrato e orchestrato dal pontefice, ebbe esito scontato, certificando l’impotenza di Giovanni Sforza, la verginità di Lucrezia e dichiarando nulle le nozze.
In tutta risposta all’onta e all’infamia, lo Sforza accusò Alessandro VI di rapporti incestuosi con la figlia, accusa poi non portata avanti ufficialmente (pare su consiglio di Ludovico il Moro, che sconsigliò caldamente lo Sforza di farsi parte in causa in un’accusa così grave con il papa principale imputato).

In ogni caso, accusa ufficiale o meno, la voce si diffuse alla velocità della luce nelle corti di tutta Europa. E, nonostante le accuse dello Sforza si incentrassero più sul papa che su Lucrezia (a leggere le sue testimonianze infatti, si ha come la sensazione che volesse far passare la moglie come vittima delle perversioni paterne), fu la reputazione della donna a essere travolta.
Una reputazione che fu ulteriormente compromessa dal processo farsesco messo in piedi dal papa: nessuno, ovviamente, credette né all’impotenza dello Sforza né alla verginità di Lucrezia.
Fatto sta che, dicerie, calunnie e accuse a parte, nei documenti del tempo non si trova alcuna traccia che possa concretamente far pensare all’incesto. Nei documenti, a tal proposito, troviamo soltanto alcuni riferimenti a generici “atteggiamenti pubblici affettuosi” comuni a tutta la famiglia Borgia, che di certo non erano usuali per le famiglie di potere del tempo. Ma da qui all’incesto, ce ne corre.
Viceversa, sempre nei documenti, troviamo una donna, o meglio una ragazzina (ricordiamo che andò in moglie allo Sforza a tredici anni e che il matrimonio fu annullato quando ne aveva appena diciassette) completamente privata della sua volontà e della propria autonomia decisionale, pedina di scambio e capro espiatorio nella complessa e intricata scacchiera politica del tempo.

Alle voci di incesto si unirono ben presto quelle di una smodata promiscuità sessuale.
Negli anni del suo ritorno a Roma dopo la fine del matrimonio con lo Sforza, si parla continuamente di un numero altissimo e imprecisato di amanti. Celebri le parole di due cronisti contemporanei a questo proposito: il veneziano Priuli la definì “la più gran puttana che fosse in Roma”, mentre l’umbro Materazzo “colei che porta il gonfalone delle puttane”.
Ma di nuovo non vi sono elementi a suffragio né testimonianze che vadano oltre la voce astratta. Soprattutto, è indicativo che questi due giudizi, tra i più celebri e citati dell’epoca, siano stati emessi da due cronisti che non misero mai piedi a Roma e che sentenziarono sulla base delle solite dicerie.

Unica relazione provata e documentata della donna fu quella con un giovane servitore spagnolo della corte papale, tale Pedro Calderòn. Relazione di certo scandalosa, ma per motivi ben diversi e ben lontani dalla perversione sessuale.
Lucrezia restava infatti la pedina centrale delle trame politiche del padre Alessandro VI e del fratello Cesare. Così, bisognoso lo Stato Pontificio di un’alleanza con gli aragonesi in ottica antifrancese, Lucrezia, contro la sua volontà, fu data in moglie in seconde nozze ad Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie.
Il tutto mentre Lucrezia scopriva di aspettare un figlio da Pedro Calderòn. Oltre che per le umili origini dell’uomo, che la Borgia stando alle sue lettere amava sinceramente, la cosa andava in ogni caso messa a tacere, visto che poteva intralciare l’alleanza così meticolosamente costruita dal papa.
Il giovane servitore sparì improvvisamente e il suo corpo venne ripescato nel Tevere pochi giorni dopo, mentre Lucrezia fu fatta partorire in gran segreto in un convento (e non è mai stato chiarito il destino di questo figlio, che per molti è quel Giovanni Borgia ufficialmente nato tra papa Alessandro VI e la sua amante Giulia Farnese).
Di nuovo, una donna al centro di disegni dettati e stabiliti per lei dal padre e dal fratello. E di nuovo, una donna destinata ad assumere su di sé tutta l’onda dell’ennesimo scandalo.

Nonostante questo, nonostante privata anche del suo primogenito, come duchessa di Bisceglie Lucrezia fu moglie, madre e politica esemplare.
Ma le voci su di lei non cessarono. Ad alimentarle, di nuovo azioni ed eventi indipendenti dalla sua volontà. Di nuovo azioni dettate dalla sua famiglia.
Nel 1500 il fratello Cesare, smessi definitivamente gli abiti di Cardinale e messosi alla testa dell’esercito papale, compì la celebre conquista della Romagna decantata nel “Principe” da Machiavelli. A legittimazione del Regno conquistato, riuscì ad ottenere sostegno sia dalla Francia sia da Venezia, mentre lo stesso appoggio non arrivò dalla corona aragonese.
Cesare scatenò così la sua vendetta contro il cognato: prima lo ferì in un attentato e poi, attirando con un inganno la sorella fuori dal palazzo ducale, lo fece strangolare da un suo sicario.
Un nuovo, ennesimo scandalo, per cui le fonti testimoniano chiaramente non solo l’estraneità di Lucrezia, ma la sua disperazione e il suo lutto sinceri.
Un nuovo, ennesimo scandalo che però, per i contemporanei, fu l’ennesima occasione per scagliarsi contro la famiglia Borgia in toto, Lucrezia compresa.

Le trattative per le terze nozze di Lucrezia furono nuovamente orchestrate da Alessandro VI e da Cesare Borgia ma, in questa occasione, la donna riuscì a far valere, in modo minimo ma decisivo, la propria voce. Nel senso che accettò di sposarsi solo con una casata in grado di bilanciare, per forza e per prestigio, il potere del padre e del fratello, e non essere così completamente soggiogata alle loro trame e al loro volere.
La scelta, grazie all’intercessione del re di Francia Luigi XII, cadde su Alfonso d’Este, figlio di Ercole duca di Ferrara.
Al centro di una delle corti più importanti d’Italia, finalmente lontana dall’influenza e dal dominio della famiglia, soprattutto dopo la morte sia del padre sia del fratello, Lucrezia Borgia come duchessa di Ferrara fece completamente dimenticare la sua fama funesta.
Moglie fedele e madre virtuosa, esibì doti politiche e diplomatiche notevoli, al punto che il marito, nei suoi periodi di assenza, le affidò completamente la guida della città. Fu anche attivissima nel campo del mecenatismo, accogliendo a corte artisti del calibro di Ariosto, Bembo e Trissino.
Amatissima dal popolo ferrarese, specie dopo la caduta in disgrazia della città, quando Lucrezia iniziò a indossare il cilicio in segno di penitenza e fondò il Monte di Pietà in soccorso dei poveri di Ferrara.

Una buona reputazione che la accompagnò senza più scandali né dicerie fino alla morte.
Eppure, subito dopo la scomparsa della donna, i felici anni ferraresi furono cancellati di colpo e la turpe “leggenda nera” su di lei con tutte le dicerie di cui abbiamo ampiamente parlato tornò a rinfocolarsi, come e più di prima, attraversando i secoli, arrivando fino alla Rivoluzione Francese, fino all’800, quando Victor Hugo la rese spietata e turpe avvelenatrice in una celebre tragedia teatrale.
Fino a oggi, che ancora in Lucrezia Borgia vediamo il simbolo della depravazione.

Ben lontani dal poter esaurire una discussione storiografica in questo spazio, tuttavia, facendoci forza delle fonti storiche, ci sbilanciamo volendo riabilitare la figura di una donna che non fu né santa né puttana, ma ebbe, come tante, tantissime femmine di ieri e di oggi, la sventura di vedere la propria volontà annullata da un mondo e da una società dominati e determinati da maschi.

E che oggi ha la sventura di essere spesso e volentieri giudicata da una storia e da una storiografia che, anche se non raccontata soltanto da maschi, non riesce proprio a uscire da una certa logica maschilista.

#inostriantenati
#storieRiccardoLestini

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